“Nonostante tutto il mio non è stato mai un desiderio di vendetta, perché a differenza di quella gente io sono ancora capace di amare. Ma non vorrei che la morte di Matteo Messina Denaro ora cancellasse tutto, anche il male che ha fatto. Abbiamo il dovere e il diritto, soprattutto per chi non c’è più, di continuare a parlare di lui come di un carnefice, come di una persona che fino alla fine non ha voluto dire ciò avrebbe potuto, quella verità e quella giustizia che ancora cerchiamo”.
Che non avete avuto da lui. Anche dopo l’arresto e la malattia non ha detto nulla.
Neanche sul letto di morte. Non ho provato indifferenza per questo suo stato di essere, ma provo un estremo dolore nel fatto che ho sperato fino alla fine che ci potesse essere in lui una strada di redenzione e un modo per poterci far arrivare a quelle verità su tante cose che ancora non sappiamo. E dirci forse quei nomi che nelle aule di tribunale non sono venuti fuori.
E invece non lo avete visto.
Fino alla fine è rimasto nel suo ruolo, di chi vuole essere il padrone della vita degli altri. E lo ha dimostrato anche con la latitanza, grazie alla connivenza e convenienza di alcuni, di quella parte di Stato peggiore. Nel “Piccolo principe” si legge “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Tutti sapevano ma nessuno vedeva. Questa è la rabbia che mi assale ancora di più.
Cosa ha fatto più male in questi otto mesi?
Dopo la cattura molti media parlavano di lui solo come l’uomo che era stato un latin lover, che indossava abiti griffati, e non del carnefice. Tanto che abbiamo corso il pericolo che ci potesse essere un’emulazione, facendo apparire quello che lui era stato come qualcosa che fa avere quello che in una vita normale non puoi avere.
Però la malattia ha dimostrato anche in lui una debolezza.
Pensava di essere talmente potente da non arrivare mai a dover dare conto a quella che è poi stata la sua malattia. Il fatto che abbia detto di non voler essere più curato e di voler morire, ha dimostrato che neanche in punto di morte ha avuto la capacità di affrontare il dolore. Io ho visto morire mio padre di cancro e ti posso assicurare che non chiedeva mai di morire, ma viveva la vita ogni istante.
Se tu in questi mesi dopo l’arresto avessi potuto incontrarlo lo avresti fatto? E cosa gli avresti detto?
Il perdono arriva dopo un percorso, ma soprattutto va chiesto. E non mi sembra che abbia avuto la dignità né di pentirsi né di collaborare né tantomeno di chiedere il perdono. Non so se avrei voluto incontrarlo, ma se l’avessi potuto fare gli avrei chiesto di parlare, perché ci sono tanti figli, tante madri, tante sorelle che aspettano quella verità, tante madri, come la mia, che se ne sono andate senza avere la possibilità di sapere che cosa è accaduto in quegli anni delle stragi. Forse gli avrei chiesto di mettersi una mano sulla coscienza e di potersi liberare anche lui di quel macigno che per tutta la vita ha portato addosso. Ha avuto una vita potente, ma l’ha trascorsa nascondendosi. Non ha goduto della bellezza reale, oltre a quella dell’apparire che lui sempre considerava. La bellezza vera di stare di fronte al mare e godersi il mare.
Però negli ultimi giorni ha voluto incontrare la figlia.
Avrebbe detto che “non conoscere i propri figli è contro natura”. Io gli avrei detto che anche sopravvivere a un proprio figlio è contro natura. Questa forma di affettività che lui ha cercato di avere alla fine della sua vita l’ho considerata una mancanza di rispetto verso le persone a cui lui ha fatto del male. Ho pensato a mia madre, sopravvissuta al proprio figlio. Non ha visto invecchiare quel figlio al quale a 29 anni è stata spezzata la vita.
Voi familiari delle vittime delle mafie siete stati però capaci di rispondere alla morte dei vostri cari in modo che i mafiosi non si aspettavano.
Messina Denaro non c’è più ma noi siamo ancora qui e parliamo. E questo davvero i mafiosi non se l’aspettavano. Non ci siamo chiusi nel nostro dolore, non abbiamo fatto dimenticare i nomi di Antonio, Rocco, Vito, del dottor Falcone e della dottoressa Morvillo. Dopo 31 anni gridiamo quei nomi. E abbiamo trasformato quel dolore in impegno, facendo ogni giorno una piccola parte, il giusto, lasciando in eredità ai nostri figli l’esempio.
Fonte: avvenire.it