Il premio Giuseppe Fava è stato assegnato quest’anno a Francesco La Licata, editorialista de La Stampa, dopo essere stato per anni inviato del quotidiano torinese, e che poliziotti, carabinieri, magistrati ha raccontato con grande professionalità, umanità e dovizia di documentazione.
Qual è il valore simbolico di questo premio?
“Lasciatemi dire sono davvero contento di avere ricevuto questo premio, sia perché viene dalla Fondazione Fava che è una fondazione autorevole che accoglie dentro di sé colleghi, giornalisti, sulla cui professionalità e sulla cui rettitudine c’è poco da dire. Quindi si tratta di una maggiore soddisfazione per la provenienza di questo premio ed anche perché è, potrebbe essere, un riconoscimento per tutto quello che negli anni, siamo riusciti a fare per raccontare la mafia e la Sicilia ma soprattutto per come contrapporsi a questo sistema che senza l’opposizione della stampa, lasciatemelo dire, sarebbe stato ancora più potente di quello che abbiamo purtroppo imparato a conoscere negli ultimi anni. Perché se i giornalisti possono avere la coscienza pulita per avere fatto tutto quello che era loro nelle loro possibilità, lo stesso non si può dire dei poteri costituiti che non sempre si sono dimostrati all’altezza di questa battaglia”.
Rilevi una caduta di attenzione, di impegno civile nei confronti della criminalità organizzata, verso la lotta alle mafie?
“Sapete bene come funziona la comunicazione. Questa caduta di tensione, questa caduta di attenzione per un problema così importante, diciamo che è periodica. Ogni volta che lo Stato riesce a piazzare dei colpi notevoli contro l’organizzazione criminale, immediatamente dopo registriamo un’azione di riflusso. È come se si potesse tirare un sospiro di sollievo e uscire da un regime di emergenza che certo non aiuta la società civile e non aiuta a vivere serenamente specialmente nei territori del Sud dell’Italia. Il problema è che la stessa storia ci insegna come dopo i successi di Falcone c’è stato un terribile passo indietro che ci ha portato alle stragi del ‘93 e del ’92. Stragi che hanno ridotto in ginocchio un Paese, che si sono rivelate un grave attentato al vivere civile, alla democrazia. Quindi dopo il ‘92 anche il mestiere del giornalista si è rivelata una sorta di lotta di resistenza e io non ho timore a dire parole così importanti perché di questo si è trattato. E chi non lo vuole capire fa male non capirlo, perché farebbe bene a riflettere a rivedere negli ultimi vent’anni che cosa è successo in questo Paese”.