L’intervento di Mattarella alla cerimonia di apertura della 50° edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia

Di seguito l’intervento integrale del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla cerimonia di apertura della 50^ edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia

Democrazia.
Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo.
È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore.
Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere.
Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera.
Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte.
Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della propria posizione.
Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro.
La interpretazione che si dà di questo ordito essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura sufficiente come base di reciproco rispetto.
Si è persino giunti ad affermare che siano opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima artatamente utilizzabile come limitazione della prima.
Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia.
O questa si traduce soltanto in un metodo?
Cosa la ispira?
Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo delle nostre istituzioni e la vita civile della nostra comunità?
È un interrogativo che ha accompagnato e accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa.
Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno.
Intervenendo a Torino, alla prima edizione della Biennale della democrazia, nel 2009, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgeva lo sguardo alla costruzione della nostra democrazia repubblicana, con la acquisizione dei principi che hanno inserito il nostro Paese, da allora, nel solco del pensiero liberal-democratico occidentale.
Dopo la «costrizione» ossessiva del regime fascista soffiava «l’alito della libertà», con la Costituzione a intelaiatura e garanzia dei diritti dei cittadini.
L’alito della libertà anzitutto come rifiuto di ogni obbligo di conformismo sociale e politico, come diritto all’opposizione.
La democrazia, in altri termini, non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle «regole del gioco».
Perché – come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità e uguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine e non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che possano diventare, a loro volta, maggioranze.
È la pratica della democrazia che la rende viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere.
Quali le ragioni del riferimento all’alito della libertà parlando di democrazia?
Non è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di diritto e alla democrazia stessa.
L’impegnativo tema che avete posto al centro della riflessione di questa Settimana sociale interpella, con forza, tutti.
La democrazia, infatti, si invera ogni giorno nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti remissivi circa la sua qualità.
Si può pensare di contentarsi che una democrazia sia imperfetta?
Di contentarsi di una democrazia a «bassa intensità»?Si può pensare di arrendersi, «pragmaticamente», al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della «cosa pubblica»?
Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori? Per porre mente alla defezione/diserzione/rinuncia intervenuta da parte dei cittadini in recenti tornate elettorali.
Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare.
Occorre, piuttosto, adoperarsi concretamente affinché ogni cittadino sia nelle condizioni di poter, appieno, prendere parte alla vita della Repubblica.
I diritti si inverano attraverso l’esercizio democratico.
Se questo si attenua, si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza.
Democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio «un uomo-un voto» venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori.
Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.
Ci soccorre anche qui Bobbio quando ammonisce che non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti «in nome del dovere di governare».
Una democrazia «della maggioranza» sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà.
Al cuore della democrazia ci sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione.
Questa chiave di volta della democrazia opera e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune.
Se non si cede all’ossessiva proclamazione di quel che contrappone, della rivalsa, della delegittimazione.
Se l’universalità dei diritti non viene menomata da condizioni di squilibrio sociale, se la solidarietà resta il tessuto connettivo di una economia sostenibile, se la partecipazione è viva, diffusa, consapevole del proprio valore e della propria essenzialità.
Nel cambiamento d’epoca che ci è dato di vivere avvertiamo tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie.
Oggi constatiamo criticità inedite, che si aggiungono a problemi più antichi.
La democrazia non è mai conquistata per sempre.
Anzi, il succedersi delle diverse condizioni storiche e delle loro mutevoli caratteristiche, ne richiede un attento, costante inveramento.
Nella complessità delle società contemporanee, a criticità conosciute, che mettono a rischio la vita degli Stati e delle comunità, si aggiungono nuovi rischi epocali: quelli ambientali e climatici, sanitari, finanziari, oltre alle sfide indotte dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.
Le nostre appaiono sempre più società del rischio, a fronteggiare il quale si disegnano, talora, soluzioni tecnocratiche.
È tutt’altro che improprio, allora, interrogarsi sul futuro della democrazia e sui compiti che le sono affidati, proprio perché essa non è semplicemente un metodo, bensì costituisce lo «spazio pubblico» in cui si esprimono le voci protagoniste dei cittadini.
Nel corso del tempo, più volte è stata, malauguratamente, posta la domanda «a cosa serve la democrazia ?». La risposta è semplice: a riconoscere – perché preesistono, come indica l’art. 2 della nostra Costituzione – e a rendere effettive le libertà delle persone e delle comunità.
Karl Popper ha indicato come le forme di vita democratica realizzano, essenzialmente, quella «società aperta» che può massimizzare le opportunità di costituzione di identità sociali destinate a trasferirsi, poi, sul terreno politico e istituzionale.
La stessa esperienza italiana negli ultimi trent’anni ne è un esempio.
Nei settantotto anni dalla scelta referendaria del 1946, libertà di impronta liberale e libertà democratica hanno contribuito, al «cantiere aperto» della nostra democrazia repubblicana, con la diversità delle alternative, le realtà di vita e le differenti mobilitazioni che ne sono derivate.
La libertà di tradizione liberale ci richiama a un’area intangibile di diritti fondamentali delle persone, e sulla indisponibilità di questi rispetto al contingente succedersi di maggioranze e, ancor più, a effimeri esercizi di aggregazione degli interessi.
La libertà espressa nelle vicende novecentesche, con l’irruzione della questione sociale, ha messo poi a fuoco la dinamica delle aspettative e dei bisogni delle identità collettive nella società in permanente trasformazione.
È questione nota al movimento cattolico, se è vero che quel giovane e brillante membro dell’Assemblea Costituente, che fu Giuseppe Dossetti, pose il problema del «vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale», con la definizione di «democrazia sostanziale».
A segnare così il passaggio ai contenuti che sarebbero stati poi consacrati negli articoli della prima parte della nostra Carta costituzionale. Fra essi i diritti economico-sociali.
Una riflessione impegnativa con l’ambizione di mirare al «bene comune» che non è il «bene pubblico» dell’interesse della maggioranza, ma il bene di tutti e di ciascuno al tempo stesso, secondo quanto già la Settimana Sociale del 1945 volle indicare.
Il percorso dei cattolici – con il loro contributo alla causa della democrazia- non è stato occasionale né data di recente, eppure va riconosciuto che l’adesione dottrinale alla democrazia fu meno remota perché condizionata dalla «questione romana» con l’accidentato percorso della sua soluzione.
Ma già l’ottava Settimana sociale, a Milano, nel 1913, non avvertiva remore nell’affermare la fedeltà dei cattolici allo Stato e alla Patria – quest’ultima posta più in alto dello Stato – sollecitando, contemporaneamente, il diritto di respingere ogni tentativo di «trasformare la Patria, lo Stato, la sua sovranità, in altrettante istituzioni ostili… mentre sentiamo di non essere a nessuno secondi nell’adempimento di quei doveri che all’una e all’altro ci legano». Una espressione di matura responsabilità.
Il tema che veniva posto, era fondamentalmente un tema di libertà – anche religiosa – e questo riguardava tutta la società, non esclusivamente i rapporti bilaterali tra Regno d’Italia e Santa Sede.
Ho poc’anzi ricordato la 19^ edizione delle Settimane, a Firenze, nell’ottobre 1945. In quell’occasione, nelle espressioni di un eminente giurista – poi costituente – Egidio Tosato, troviamo proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini.
La democrazia come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce.
Anche da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale.
Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola.
Lo fece con parole molto nette: «Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e più oppressiva che non la volontà di un principe». Un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice.
La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile di leale e irrinunziabile vitalità democratica.
Guido Gonella, personalità di primo piano del movimento cattolico italiano e poi statista insigne nella stagione repubblicana, relatore anch’egli alla Settimana di Firenze nel 1945, non ebbe esitazioni nel rinvenire nelle Costituzioni, una «forma di vita più alta e universale», con la presenza di elementi costanti «categorie etiche», e di elementi variabili, secondo le «esigenze storiche», ponendo in guardia sui rischi posti da una eccessiva rigidezza conservatrice o da una troppo facile flessibilità demagogica che avrebbe potuto caratterizzarle, con il risultato di poter passare con indifferenza dall’assolutismo alla demagogia, per ricadere all’indietro verso la dittatura.
Su questo si basa la distinzione tra prima e seconda parte della nostra Costituzione.
Il messaggio fu limpido: sbagliato e rischioso cedere a sensibilità contingenti, sulla spinta delle tentazioni quotidiane della contesa politica. Come rischia di avvenire con la frequente tentazione di inserire richiami a temi particolari nella prima parte della Costituzione, ignorando che questa, per effetto della saggezza dei suoi estensori, li ricomprende comunque in base ai suoi principi e valori di fondo.
La Costituzione seppe dare un senso e uno spessore nuovo all’unità del Paese e, per i cattolici, l’adesione ad essa ha coinciso con un impegno a rafforzare, e mai indebolire, l’unità e la coesione degli italiani.
Spirito prezioso, come ha ricordato di recente il Cardinale Zuppi, perché la condivisione intorno a valori supremi di libertà e democrazia è il collante, irrinunciabile, della nostra comunità nazionale.