PALERMO. «Il sacrificio di illustri servitori dello Stato deve motivare tutti quanti ad essere sempre vigili nella lotta contro la mafia». Lo dichiara l’assessore della Famiglia, politiche sociali e lavoro, Nuccia Albano, che ha partecipato questa mattina alla commemorazione del vicequestore Ninni Cassarà e dell’agente di polizia Roberto Antiochia, in piazza Giovanni Paolo II, e a quella del procuratore capo della Repubblica Gaetano Costa, in via Cavour, a Palermo. «Mantenere viva la memoria di questi eroi, trasmettendo alle nuove generazioni le loro storie, il valore della legalità e del coraggio civico è essenziale per onorarne il sacrificio e continuare a combattere la mafia. Oggi – continua l’assessore Albano – abbiamo più che mai il dovere di sensibilizzare i giovani su queste tematiche, affinché possano impegnarsi per una società più giusta e libera dalla criminalità organizzata. Ciò può far sì che la loro morte non sia stata vana».
Antonino Cassarà, detto Ninni, nasce a Palermo il 7 maggio 1947. Dopo aver superato il concorso per Commissario di P.S. è destinato alla Questura di Reggio Calabria e poi di Trapani. In quest’ultima sede ebbe modo di conoscere il giudice Giovanni Falcone, diventandone presto il “braccio destro operativo”. Successivamente trasferito alla Questura di Palermo, diventa il vicedirigente della Squadra Mobile, impegnandosi con determinazione nel contrasto alla criminalità organizzata. Nelle indagini sulla mafia palermitana avrà quindi modo di lavorare con Giuseppe Montana, partecipando alla celebre inchiesta “Pizza Connection”, nonché, con il pool di Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Ayala. Alle indagini di Ninni Cassarà si deve infatti il “Rapporto dei 162” che svela, per la prima volta, l’organigramma di tutta “Cosa nostra” grazie anche alle prime dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia; il patrimonio conoscitivo così acquisito sul contesto mafioso non ha precedenti, permettendo, quindi, di gettare le basi per l’istruzione del maxiprocesso. Durante l’estate del 1985 la Squadra Mobile di Palermo è fortemente impegnata nello sviluppo delle indagini volte a disarticolare la rete criminale di “Cosa nostra” grazie alla dedizione degli uomini che la compongono. Tuttavia, la ferocia della mafia palermitana aveva già recentemente colpito, il 28 luglio, la sezione “catturandi” uccidendone il direttore, il Commissario Giuseppe Montana con il quale, Ninni Cassarà, aveva un rapporto fraterno. A seguito della morte di Salvatore Marino e della rimozione del vertice della Squadra Mobile di Palermo, Ninni Cassarà si trova di fatto a dirigerne le operazioni in una situazione tutt’altro che semplice. Il 6 agosto 1985, il vicequestore Cassarà, attorno alle ore 15.30, faceva rientro nella propria abitazione di via Croce rossa per il pranzo, scortato da un Alfetta blindata e da tre uomini agenti di Polizia: Roberto Antiochia, Natale Mondo, Giovanni Salvatore Lercara. Una volta giunti all’abitazione e dopo aver salutato la moglie Laura Cassarà affacciata al balcone dell’appartamento, un commando di nove uomini armati di kalashnikov spara – affacciandosi dallo stabile di fronte – in direzione di Cassarà, appena sceso dalla macchina blindata. Nell’agguato sono stati sparati più di duecento colpi d’arma da fuoco che porteranno alla morte il vicequestore Cassarà sulle scale di casa propria, spirando fra le braccia della moglie accorsa per soccorrere il marito. Ninni Cassarà lasciava tre figli. È stato insignito della Medaglia d’oro al valore civile. Il 6 agosto 1985, i sicari di Cosa nostra uccidono anche il ventitreenne Roberto Antiochia che, al momento dell’esplosione dei colpi, provò a fare da scudo al vicequestore. Antiochia, giovane agente di Polizia trasferito da qualche mese a Roma, in quei giorni doveva trovarsi in ferie; volontariamente, quindi, aveva chiesto di rientrare a Palermo con l’intenzione di aiutare gli ex- colleghi della Squadra Mobile nelle indagini sull’omicidio di Montana. Consapevole dei gravi rischi, si era ciononostante offerto per la scorta di Ninni Cassarà.
Roberto Antiochia nasce a Terni il 7 giugno 1962. Dopo aver completato gli studi superiori a Roma, entra in Polizia a soli diciotto anni, frequentando la Scuola di Piacenza. Nel corso della carriera svolge le proprie funzioni presso Milano e Torino per poi essere assegnato a Palermo dove lavora a fianco di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà. Nel 1985 è trasferito alla Criminalpol di Roma, tuttavia, sebbene in congedo per il periodo di ferie estive ad Ostia, decide di recarsi volontariamente in Sicilia per il funerale di Montana e portare il suo personale aiuto agli ex-colleghi della Mobile di Palermo.
È stato insignito della Medaglia d’oro al valore civile. A Roberto Antiochia è inoltre dedicata la via della Questura di Terni e il Commissariato di Orvieto. Sua madre Saveria da quel 6 agosto 1985 si è impegnata con tutta se stessa e per tutta la vita come testimone di legalità, prima col Circolo Società Civile e poi con Libera, per mantenere vivo il ricordo di Roberto e dei suoi amici poliziotti, Beppe e Ninni, riuscendo con le sue parole e la sua testimonianza nelle scuole, nelle parrocchie, nelle biblioteche, nei circoli di tutta Italia, a tramandare il valore inestimabile delle loro azioni e del loro sacrificio. Lo Stato ha onorato il sacrificio di Antonino Cassarà e di Roberto Antiochia, con il riconoscimento concesso a favore dei loro familiari, costituitisi parte civile nel processo, dal Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso di cui alla legge n. 512/99.
Gaetano Costa nasce a Caltanissetta il 1 marzo 1916, città dove studia, laureandosi nella facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Dopo aver vinto il concorso in magistratura è arruolato come ufficiale nell’aviazione ottenendo due croci di guerra. L’8 settembre si unisce ai partigiani che stavano operando nella Val di Susa. Terminata la guerra, inizia a lavorare presso il tribunale di Roma e in seguito chiede il trasferimento alla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Qui svolge la maggior parte della sua attività di magistrato prima come sostituto procuratore e poi come procuratore capo dimostrando alta preparazione professionale, indipendenza ed equilibrio. Nonostante apparisse freddo e distaccato e con poca inclinazione ai rapporti sociali, dimostrò sempre una grande umanità ed attenzione soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli. Riuscì ad intuire sin dagli anni sessanta che la mafia aveva subito una radicale mutazione e che si era annidata nei gangli vitali della pubblica amministrazione controllandone gli appalti, le assunzioni e la gestione in genere. Riteneva, infatti, che un’efficace lotta alla mafia imponeva la predisposizione di strumenti legislativi che consentissero di indagare sui patrimoni dei presunti mafiosi e di colpirli. Nel gennaio del 1978 è nominato Procuratore capo di Palermo e nel momento dell’insediamento, consapevole di dover affrontare resistenze, dichiara: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”. Durante la sua gestione avvia una serie di delicatissime indagini nell’ambito delle quali tenta di penetrare i santuari patrimoniali della mafia. In particolare, firma di proprio pugno la convalida degli arresti di 55 mafiosi, in testa Rosario Spatola, fermati quattro giorni prima, subito dopo l’uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Proprio questo gesto coraggioso, insieme al fatto che Costa aveva messo gli occhi anche sugli appalti al Comune di Palermo, a partire da quello su sei scuole in mano a ditte facenti capo a Rosario Spatola a portare “Cosa nostra” a decidere di uccidere il magistrato. Fu assassinato il 6 agosto 1980, mentre si trovava da solo e senza scorta davanti a una bancarella di libri nella centralissima via Cavour, vicino alla sua abitazione. Fu raggiunto alle spalle da tre colpi di pistola sparatigli da due killer in moto. Il delitto venne ordinato dal clan mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo. Pur essendo l’unico magistrato a Palermo al quale, in quel momento, erano state assegnate un’auto blindata ed una scorta, non ne usufruiva ritenendo che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che lui era uno di quelli che “aveva il dovere di avere coraggio”. L’omicidio, di chiaro stampo mafioso, tutt’ora non ha un colpevole, sebbene la Corte di assise di Catania ne abbia accertato il contesto individuandolo nella zona grigia tra affari, politica e crimine organizzato. Il suo impegno fu continuato da Rocco Chinnici, allora tra i pochi che lo capirono e ne condivisero gli intenti e l’azione, e a cui, per questo, toccò la stessa sorte. Nel libro“È così lieve il tuo bacio sulla fronte”, edito da Mondadori, Caterina Chinnici ricorda l’abnegazione di Gaetano Costa con queste parole: “Nel febbraio 1982 – noi l’abbiamo scoperto dopo – papà andò in missione a Roma, sotto falso nome, a riferire al Consiglio Superiore della Magistratura cosa stava accadendo a Palermo. Raccontò di Costa, di come fosse stato lasciato solo a firmare un plico di ordini di cattura di cui nessuno voleva farsi carico, contro le famiglie Spatola, Inzerillo e Gambino. Disse che era stato ucciso per aver voluto compiere il suo dovere di magistrato, ed era esattamente così. Nessuno di quegli uomini – Costa, Scaglione, Terranova, Mattarella, Basile e gli altri che si aggiunsero alla lista nel 1981 – stava facendo altro che il proprio dovere”. Lo Stato ha onorato il suo sacrificio con il conferimento della Medaglia d’oro al merito civile per aver esercitato la propria missione ispirandosi al principio dell’indipendenza della funzione giudiziaria, con profondo impegno ed appassionata dedizione, distinguendosi per la particolare fermezza ed il rigore morale, pur consapevole dei rischi personali connessi alla sua funzione di Pubblico Ministero.