Qualche giorno fa a Paternò, in provincia di Catania, durante la festa religiosa di Santa Barbara, è andato in scena un inchino davanti la casa di un esponente della mafia locale (del clan Santapaola). Un episodio, purtroppo, non nuovo alle cronache.
La statua di Santa Barbara, durante la processione, ha fatto una lunga sosta per rendere omaggio al boss attualmente in carcere. Una scena già vista, identica a tante altre. In un passato recente, prima di Paternò, abbiamo assistito all’inchino della Madonna delle Grazie di Oppido Mamertina (Reggio Calabria) davanti casa del boss Giuseppe Mazzagatti. In Sicilia l’anno scorso l’inchino dell’effige di San Calogero si è fermata proprio nel regno dei Messina, a Porto Empedocle (Agrigento) per omaggiare il boss Gerlandino Messina, all’ergastolo per associazione mafiosa. E ancora a Palermo, nel cuore del quartiere Ballarò, l’anno scorso la lunga processione ha portato la vara della Madonna del Carmine nel “regno” del boss, attualmente in carcere, Alessandro D’Ambrogio, che fino all’anno precedente si trovava in prima fila e portava in spalle la statua. Il triste elenco è lungo e, purtroppo, con episodi molto simili.
Si tratta di un’ostentazione del potere che non si piega davanti a niente. A Paternò, il boss degli “Assinnata” si trova in carcere, ma il suo potere è ancora molto forte. La processione, l’inchino, “l’annacata” con il sottofondo de “Il Padrino” e il bacio finale al figlio rappresenta un messaggio chiaro e preciso. Il tutto a pochi passi dalle forze dell’ordine e dal palazzo del comune. Immediato l’intervento della questura che ha disposto “il divieto di partecipare allo svolgimento delle manifestazioni religiose dei due comitati organizzativi” e dure le parole del vescovo di Acireale Antonino Raspanti che al “Messaggero” dichiara che “non sono confraternite ma associazioni laiche. La mafia è ancora ben presente. Non deve trarci in inganno il fatto che la violenza, i gesti eclatanti siano diminuiti. L’attenzione di tutti deve restare alta. Quella della Chiesa, che deve rappresentare anche un presidio di legalità, e quella dello Stato. Ciascuno deve fare la propria parte”.
Quello che spaventa di più in tutta questa storia è il silenzio di chi sapeva. Nelle parole del Vescovo nessun riferimento al parroco, nessuna parola contro chi sapeva dell’inchino in programma e non ha segnalato il fatto. Un silenzio che spaventa. Che rende difficile una vera “rivoluzione culturale”. Prendere le distanze dalla mafia vuol dire anche allontanare quei soggetti “chiacchierati” e, all’occorrenza, negargli persino il saluto.
Una rivoluzione che ancora in Sicilia (e non solo) stenta a partire; rivoluzione che prima di tutto deve venire dal basso, dalla chiesa, dai preti, dalle scuole, dalle istituzioni, dai cittadini. Il pentito Leonardo Messina, nell’interrogatorio del 16/04/1992, afferma che “I momenti di culto hanno un valore molto importante per noi, mi occupavo io delle feste religiose. Il prete? E cosa doveva dire! Pensa davvero che i preti non sapessero chi organizzava le feste? ” (tratto da diariosette.it).
Le feste religiose nel tempo hanno assunto un’importanza fondamentale per le mafie. I mafiosi, anche quelli in carcere, esercitano ancora il controllo sociale sul territorio e le manifestazioni religiose sono sicuramente un modo per ribadire con forza la propria presenza, il proprio potere, sul territorio.
Le feste religiose, oltre ad essere un importante palcoscenico per manifestare il potere dei boss, che a volte diventano vere e proprio parate, sono anche un modo per omaggiare i boss in carcere e, come in quest’ultimo caso, anche i parenti e che sono sul territorio. Una manifestazione del potere che deve essere fermata sul nascere. Controllando i “portatori dei santi” e facendo pulizia all’interno delle confraternite religiose.