Quella certa atmosfera di paese

Castellammare si risveglia senza avere più il boss a passeggiare per il “Cassaro”

 

saracino artaleC’è un pezzo di Sicilia dove sembra che il tempo non sia mai trascorso, dove tutto resta fermo agli anni in cui il potere di paese era rappresentato dal mafioso ai cui piedi tutti si inchinavano. E chi si rifiutava veniva messo all’indice. A Castellammare del Golfo questa descrizione bene si addice. Qui il mafioso, nella persona di Mariano Saracino, era solito passeggiare giù e su per il “Cassaro”, una fermata al solito bar e poi di nuovo daccapo, tranne quando doveva assentarsi per guardare meglio in giro, poi ritornava. Sorrideva Saracino quando si incrociava con i ragazzi, anche cresciuti, che intanto avevano deciso di guardarsi bene dal frequentarlo, anzi quando potevano non perdevano occasione per ricordare ai loro quasi sempre increduli concittadini che Saracino non era certo uno stinco di santo e che non era finito in galera per persecuzione giudiziaria come ogni tanto Saracino andava raccontando. Ma quei giovani che raccontavano per Saracino non erano altro che “delatori”. E’ la Sicilia miei cari lettori. La stessa che raccontava Sciascia moltissimi anni addietro, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, ma a Castellammare del Golfo è come se il tempo si fosse fermato. E’ la Sicilia dove i personaggi sul palcoscenico sono i politici ammiccanti e i siciliani ai quali piace stare con i piedi in due staffe. E qui entra in scena un altro personaggio, Vincenzo Artale. Risarcito pare con una cifra consistente per essere stato vittima del racket nel 2006, diventato socio dell’associazione antiracket di Alcamo, talvolta conferenziere per raccontare il suo incontro con i taglieggiatori , Artale ha saputo trovare presto la maniera veloce per tornare a vendere calcestruzzo, diventando “socio” in affari di Mariano Saracino, il boss. E’ la Sicilia con la sua atmosfera di paese, dove i mafiosi non esistono ma vengono ancora chiamati galantuomini, come li appellava Sciascia nel suo primo libro, “Le parrocchie di Regalpetra”, è la Sicilia cui piace pensare che “il mondo non può essere diverso” e così la mafia, cambia pelle ma perpetua sempre il suo insanguinato potere, e persiste nel volere tenere soggiogata una società alla quale in fin dei conti per una parte piace non essere libera, e dove comanda il “vossia assabinirica”. Nel regno di Cosa nostra siciliana i colpi inferti non sono mai mancati, ci sono stati arresti, condanne, sono stati arrestati i boss manche le loro mogli ed i figli, il Comune è stato sciolto per infiltrazione mafiosa, quando consiglieri comunali erano anche figli di conclamati “uomini d’onore”, ma poi tutto è sempre ritornato a mettersi in ordine, e passando talora per i “Quattro Canti” è stato come vivere l’atmosfera dei Promessi Sposi di Manzoni, “due uomini stavano , l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole; un piccolo corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana; un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi”. I “Quattro Canti” è luogo di incontri ma funziona anche per sorvegliare, e per riferire le giuste notizie a don Mariano. Mariano sembra essere il nome preferito per i mafiosi, dal “Giorno della Civetta” alla realtà, e “don Marianino” anche nella realtà, fuori dal romanzo di Sciascia, è sempre un “ mischino “, un perseguitato, sia che si chiamava Agate sia oggi che si chiama Saracino. Sappiamo che i castellammaresi onesti non se la prenderanno perché una parte di Castellammare del Golfo ha ben chiara la realtà. Se indichiamo Castellammare come il “reame di Satana”, di quel Satana che ha i movimenti della “piovra” ci sarà chi si offenderà e chi invece ci dirà di aver ragione. Lanciamo una sfida. Non vogliamo confrontarci con chi la pensa come noi, vogliamo confrontarci con chi ritiene che stiamo dando una descrizione sbagliata di Castellammare del Golfo, sostenendo questo loro assunto a nostro avviso anche andando contro la storia e contro ciò che ci ha consegnato la cronaca fino a 24 ore addietro. Giochiamo noi la prima carta ricordando che a Castellammare del Golfo in una officina quella del mafioso Gino Calabrò fu preparata l’autobomba usata per la strage di Pizzolungo del 1985, a Castellammare del Golfo fu ucciso chi si era messo in testa che ai “galantuomini” né lui né altri dovevano accostarsi, si chiamava Paolo Ficalora. A Castellammare poi c’è una mafia che sa tenere anche bene i conti, che si ricorda dell’avere e che sa far bene da esattore, ce lo dice la storia di Gregory Bongiorno che un giorno si vide presentare una sorta di “cartella esattoriale” mandata dalla mafia e che seppe reagire mandando in gattabuia quegli esattori che pare adesso tornano a girare come “bravi” per il paese, sempre non visti e non notati a dovere dalla comunità.  Noi pensiamo che sono davvero pochi i castellammaresi che possono dire di non sapere. Non crediamo nemmeno al sindaco di oggi Nicola Coppola che dinanzi a ciò che è scritto nell’ordinanza “Cemento del Golfo”, e cioè di un suo presunto interessamento per favorire l’apertura di un impianto di carburanti, di fatto nelle mani di don Mariano Saracino, ha risposto dicendo che lui nemmeno sa dove si trova quell’impianto. Se la cosa è vera francamente non ci piace neanche, perché certamente la cosca conosce il territorio e il sindaco no. E non può essere così se diciamo di volere combattere il malaffare. Oggi siamo dinanzi al solito bivio. Stavolta è stato il turno dei carabinieri del comando provinciale di Trapani e della Compagnia di Alcamo ripulire il territorio dai mafiosi , l’azione giudiziaria, il contrasto fatto in nome del diritto e della legge contro Cosa nostra seguirà il proprio corso, la società però non resti a guardare, dia ascolto ai giovani di Libera, delle associazioni, come Castello Libero, dia ascolto all’associazionismo antirackedi Libero Futuro e alle associazioni che davvero libere nel territorio ci sono, scelga di stare dalla parte opposta a quella dei mafiosi, stare in mezzo non significa essere super partes significa dare una vera e grande mano d’aiuto alla mafia, chi sta in mezzo spesso preferisce non parlare, ed è il silenzio che dà ossigeno alla mafia.La forza della mafia non sta nella mafia, è fuori, è in quella zona grigia costituita da segmenti della politica, del mondo delle professioni e dell’imprenditoria ci ha appena pochi giorni addietro ricordato don Luigi Ciotti incontrando a Messina il popolo libero di Libera. Basta con il gioco del vero e del falso, del gioco che trasforma il falso in vero e che sa compiere anche l’azione inversa, sopratutto quando c’è da nascondere terribili cose. Perché l’operazione “Cemento del Golfo” ci ha fatto scoprire terribili cose almeno noi che la pensiamo con la Costituzione Italiana aperta davanti a noi.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.