A sentire di queste ragazze che usano le proprie “grazie” per ottenere dei vantaggi economici, diretti (un esempio a caso: affitto di appartamento in via Olgettina) o attraverso posti di lavoro non certo “per merito” (anche se certo è un “merito” nel senso che ci vuole un gran fegato per andare a letto con certi nani di ministri), può scappare qualche malignità sul ruolo della donna. Anche perché ad indignarsi si passa per bacchettoni e le stesse veline, schedine, belline, che in tivù sculettano allegramente, intervistate difendono la loro libertà di esprimersi come credono. Così noi che abbiamo fatto gli anni settanta, che abbiamo lottato per la libertà sessuale, per l’emancipazione femminile, adesso “salta fuori” che saremmo retrogradi e moralisti perché non avalliamo l’uso del corpo femminile come strumento per una rapida e brillante carriera televisiva o politica o tutt’e due.
Così ieri sera, mi faccio scappare un commento pesante su delle svestite ragazzine che allietano un peraltro sciocco show, e che c’entrano come il cacio sulla meringa (o a merenda, se preferite). Sostengo che solo ragazze senza cervello (in realtà le apostrofo come “microcefale”) possono pensare che la loro carriera possa far progressi con un bikini in tivù (in realtà dico “con le chiappe al vento”). Mia moglie non reagisce subito, ma poco dopo sento montare un’onda muta di ostilità, le vengono due graziose chiazze rosse ai lati del viso, infine sbotta che è solo questo sistema maschilista, di cui la tivù è l’espressione più chiara, che costringe anche le più brave e determinate, a passare per programmi dementi gestiti da maschi per maschi dementi e spesso anche per i loro letti ipocriti. E che io sarei un maschilista come loro se me la prendo con delle giovani che non hanno altro modo di farsi strada in una società che non propone altri canoni.
Cerco di darle ragione, ma mi imbroglio e finisco per offenderla di più. Insomma ci addormentiamo un po’ risentiti. E lì comincia il mio sogno, dove la Marilena di un tempo, coi suoi occhialetti tondi alla Lennon, i pantaloni a zampa, lo sciarpone fiorato, mi rimprovera di non crederci abbastanza, di non supportare le istanze femministe nella Palermo universitaria degli anni ’70. Poi improvvisamente non è più lei, o meglio è ancora lei ma pronuncia le stesse parole di Tina Lagostena Bassi al processo per stupro, quello famoso trasmesso dalla Rai nel ’79, che all’epoca tutta l’Italia seguì con grande emozione alla tivù. Si rivolge a me come se fossi al contempo giudice e giuria, avvocato difensore degli accusati e spettatore, comunque l’incarnazione del maschilismo in aula. Mi chiarisce cosa chiedono le donne a questo processo. «Fiorella (la ragazza seviziata), le compagne presenti in aula, ed io – spiega – qui prima di tutto come donna e poi come avvocato, chiediamo giustizia. Non chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c’interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa. Che cosa intendiamo quando chiediamo giustizia, come donne? Noi chiediamo che anche nelle aule dei tribunali, e nel paese, si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto. Purtroppo ancora la difesa dei violentatori – mi biasima puntandomi contro il dito accusatore – considera le donne solo come oggetti, con il massimo disprezzo. Io mi chiedo, perché se l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? È questa la prassi costante: diventa un processo alla donna, la vera imputata è la donna. Se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare una donna venire qui a dire “non è una puttana”. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, e senza bisogno di difensori. E io non sono il difensore della donna Fiorella, io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza, ed è una cosa diversa. Per quanto attiene al risarcimento, già vi ho detto: una lira per Fiorella, questa ragazza così venale, che andava con uomini per soldi, vero?, e sulla quale voi butterete fango, butterete fango a piene mani. Bene, questa ragazza così venale vuole una lira, e vuole la somma ritenuta di giustizia devoluta al Centro contro la violenza sulle donne, perché queste violenze siano sempre meno, perché le donne che hanno il coraggio di rivolgersi alla giustizia siano sempre di più.»
Mi risveglio al mattino molto colpito, rivivere l’arringa della Lagostena Bassi, una tosta che i ragazzi più giovani ricordano solo anziana come giudice nella trasmissione televisiva Forum, mi impressiona molto. E capisco che in un mondo ingiusto, dovremmo essere noi, tutti insieme, ad impedire questo uso distorto della bellezza femminile, non puntando il dito contro chi cerca solo di sopravvivere e di farsi spazio nell’unico modo che ritiene possibile, ma modificando radicalmente i criteri attraverso i quali scegliere chi vale davvero. C’è chi parla tanto di merito, ma non ha fatto nulla per mettere in pratica ciò che predica. Quello che si dovrebbe fare, in effetti, è impegnarsi per stabilire come attribuire punteggi e valutazioni nei diversi campi, separando spettacolo e politica, esibizione ed economia. Se la smettiamo di confondere la gente bombardandola con la cultura dell’immagine, allora potremo sperare in politici che non sono belli ma sanno di cosa si parla e di attrici-ballerine che non finiscono per diventare ministri. E io non passerei agli occhi di mia moglie per maschilista.
(Ps: per saperne di più sul processo del ’79 con la memorabile arringa di Tina Lagostena Bassi http://collettivafemminista.wordpress.com/2010/03/16/52/)