100 articoli verso il 21 Marzo: il giornalista Francesco La Licata commenta per La Stampa le parole a Locri del Presidente Mattarella
di Francesco La Licata
Bisogna esser grati al Presidente della Repubblica per la sua partecipazione, a Locri, all’incontro coi familiari delle vittime delle mafie, come ogni anno promosso dall’Associazione Libera. Grati soprattutto per la chiarezza e la determinazione delle sue parole nell’analisi e nella condanna del fenomeno mafioso.
Sergio Mattarella non si è mai manifestato come un carattere estroverso, al contrario ha sempre preferito le scelte affatto plateali, anche a costo di apparire troppo freddo e riservato. Ma ieri non ha potuto sottrarsi a quello che deve considerare quasi un «dovere», stando al senso delle parole pronunciate in pubblico. Per lunghissimi decenni si è tenuto dentro l’atroce sofferenza per la perdita del fratello, Piersanti, assassinato da Cosa nostra nel 1980, mentre era al vertice della Regione Sicilia.
Bisogna dargli atto che mai, neppure di sfuggita in tanto tempo, ha usato la sua condizione di parente di una vittima della mafia per obiettivi che possono esser anche nobili, come la politica, quando è buona politica. E spesso ha evitato persino di sfiorare il tema della mafia, per non dover fare riferimento al suo dolore privato.
Ma ieri il Presidente ha derogato, e ne siamo contenti, forte del proprio ruolo istituzionale che lo qualifica a farsi portavoce dell’intero popolo italiano. E in questa doppia veste, di cittadino ferito e interprete della rivolta antimafiosa, ha dichiarato pubblicamente tutta l’avversione contro le cosche, ma anche contro la cultura mafiosa «che ruba il futuro di questa terra».
Senza mai citare il nome di Piersanti, si è immedesimato nella sofferenza delle persone che gli stavano di fronte. «I mafiosi non conoscono pietà né umanità». Ed è andato oltre, affondando: «Non hanno alcun senso dell’onore, non del coraggio. I loro sicari colpiscono, con viltà, persone inermi e disarmate». Parole cariche di significato, anche perché pronunciate, di certo inconsapevolmente, nella piazza dove abita il boss di Locri, detenuto agli arresti domiciliari.
Non poteva giungere in un momento più adatto, il monito del Capo dello Stato. Le sue parole hanno il merito di riportare al centro dell’attenzione e, si spera, dell’agenda governativa il tema delle mafie e della battaglia contro ogni tipo di illegalità. E’ significativo che il discorso di Mattarella sia stato pronunciato in terra di Calabria, sede legale della più forte mafia del momento (secondo alcuni), eppure forse un po’ ancora (da altri) sottovalutata per via di un certo ritardo culturale che si ostina a considerare di serie B un’organizzazione criminale capace di muovere miliardi in mezzo mondo.
Ma lo sguardo del Presidente è andato oltre il recinto della criminalità organizzata, mettendola in relazione con una delle cause generate da paura e omertà: la rassegnazione e l’immobilismo. «Le mafie – ha detto Mattarella – non risparmiano nessuno… non esitano a colpire chiunque diventi un ostacolo al raggiungimento dei loro obiettivi. Che sono potere, denaro, impunità. Per questo motivo, la lotta alle mafie riguarda tutti. Nessuno può dire: non mi interessa. Nessuno può pensare di chiamarsene fuori». Un bel richiamo al senso di responsabilità, che fa vacillare gli alibi di tanti Ponzio Pilato che si sono sottratti, negli anni, al dovere della lotta, la quale – spiega il Presidente – «è una necessità per tutti: lo è, prima ancora che per la propria sicurezza, per la propria dignità e per la propria effettiva libertà». Parole che riportano alla mente l’insegnamento di Giovanni Falcone, non a caso citato da Mattarella quando ha ricordato come la battaglia non possa essere delegata allo Stato o soltanto a pochi eletti. «Come diceva Giovanni Falcone, la lotta alla mafia non può fermarsi a una sola stanza, deve coinvolgere l’intero palazzo. All’opera del muratore deve affiancarsi quella dell’ingegnere». Operai e ingegneri facciano tesoro del suggerimento.
fonte lastampa.it