Lo show in carcere di Graviano tra fiction e reality
di Alessandra Ziniti – dal quotidiano La Repubblica
Che cosa ci sia di vero nel fiume di parole che Giuseppe Graviano ha affidato al suo compagno d’ora d’aria non lo sappiamo. L’unica cosa sicuramente vera è che sapeva di essere il protagonista di un “ grande fratello” dietro le sbarre. Da subito, dal primo giorno.
Nella sua informativa alla Procura, la Dia sottolinea che Graviano avverte il suo interlocutore «che avevano messo le telecamere nel passaggio dove vanno loro, che i lavori che stanno effettuando servono a passare dei fili per il rifacimento di un impianto che servirebbe per ascoltare le loro conversazioni». Più volte il boss di Brancaccio guarda dritto nell’obiettivo della telecamera e dice: “Sono degli spioni”.
E, come appare del tutto evidente, non è un dettaglio da poco per chi, ovviamente in primis i pm della Dda di Palermo che hanno depositato i verbali al processo Trattativa trasmettendoli ai colleghi di Caltanissetta e Firenze, dovrà valutare la veridicità delle rilevantissime affermazioni di Graviano e cercare i riscontri. Per evitare che, come è accaduto fino ad ora per le analoghe “confidenze” di Riina ad un detenuto pugliese, le tante “verità” di Graviano vadano a comporre un mosaico che, per quanto suggestivo possa essere, resti confinato ad una realtà virtuale, ad una grande “fiction”, ad un reality ad uso e consumo dei media che di diverso da quello pensato da Ismaele La Vardera ha solo il luogo, il carcere anzichè i palazzi della politica.
«Niente, Umbè, comunque dobbiamo finire di parlare», dice Graviano al suo compagno d’aria Umberto Adinolfi. E giù le accuse al “Berlusca” e alla “cortesia” che gli avrebbe chiesto con un suggestivo riferimento alla stagione delle stragi, l’incredibile racconto sui rapporti sessuali all’Ucciardone che sia lui che il fratello avrebbero avuto con le mogli poi rimaste entrambe incinte, le allusioni alle altre stragi del ‘93 che “ma no che furono di Cosa nostra”, i retroscena sulla cattura di Riina e chi più ne ha più ne metta.
Cinquemila pagine di parole “in libertà” pronunciate con la assoluta consapevolezza, anche questa registrata dalle microspie, di consegnare ai magistrati esattamente quello che voleva: verità, bugie, mezze verità o mezze bugie. In fondo, è ancora lui stesso a dirlo ad Adinolfi: «Umberto se io faccio questo processo e trovo l’avvocato giusto lo sai quante cose faccio uscire senza che io dica niente?».
E il punto è proprio questo: le cose che Graviano ha voluto fare uscire, vere o false, strumentali o funzionali, sicuramente “avariate”, sono puntualmente uscite secondo una strada anche questa ampiamente prevedibile e già collaudata da Riina. Intercettazioni, trascrizioni, verbali depositati e dunque pubblici, ampia copertura mediatica e nuovi fascicoli di indagine che, difficilmente ( così come è stato l’anno scorso per le conversazioni in carcere di Riina)approderanno ad una verità giudiziaria.
C’è una strategia nei discorsi a ruota libera di Graviano? Sono “discorsi” chirurgicamente mirati nel tentativo di inquinare più vicende processuali che ancora presentano ampi buchi neri? Certo, a meno di non volerli prendere per superuomini in quanto boss mafiosi di prima grandezza, è inevitabile pensare che quasi 25 anni di carcere duro fiacchino anche la lucidità di gente del calibro di Riina o di Graviano che sicuramente, così come non hanno mai mostrato alcuna intenzione di collaborare con i pm, altrettanto sicuramente non racconterebbero al primo camorrista che gli mettono accanto, i segreti che si porteranno nella tomba. A meno che non sia a favore di microspia.
fonte La Repubblica