CASTELLAMMARE DEL GOLFO. Ricorre oggi il venticinquesimo anniversario della tragica uccisione del Capitano Paolo Ficalora, ucciso a Castellammare del Golfo il 28 settembre 1992. A Paolo Ficalora sono state intitolate quattro borse di studio e nel 2004 il Comune di Castellammare del Golfo gli ha intitolato una via.
Paolo Ficalora, uomo, padre, marito, capitano di lungo corso della Marina mercantile, è stato ucciso da innocente a colpi di fucile nella sua casa in contrada Ciauli, nella baia di Guidaloca, a Castellammare del Golfo, nel residence che dava in affitto. La sua colpa? Aver ospitato per un periodo il super pentito di Cosa Nostra Totuccio Contorno, di cui Ficalora ignorava l’identità nel periodo in cui soggiornò nel suo residence. Erano gli anni delle stragi, e un affronto così, secondo i corleonesi, non poteva restare impunito. Una condanna a morte emessa senza esitazione e concretizzata da un mafioso locale: il castellammarese Gioacchino Calabrò con diversi copi di arma da fuoco la sera del 28 settembre di venticinque anni fa, sotto gli occhi della moglie nell’oscurità della notte.
Per lungo tempo la sua morte è rimasta avvolta in un mistero, aprendo a illazioni e dicerie che finirono per trascinare la storia di Paolo e della sua famiglia nel dimenticatoio. Quindi dimenticato per anni e, per certi versi, diventato “vittima di serie b”. “Di quel maledetto 28 settembre – racconta la figlia Tiziana Ficalora ad Alqamah.it – non ho ricordi, non ero in città. Ricordo che la Città di Castellammare ha reagito con totale indifferenza, mettendo in dubbio la figura di mio padre”. Già, proprio così. Erano gli anni in cui si uccidevano gli innocenti 2 volte: la prima con il piombo, la seconda con l’indifferenza. Si azzardavano conclusioni, si additavano gli innocenti come collusi anche se totalmente estranei al mondo di Cosa Nostra. Questa è una storia comune a molti. Una storia che, come le altre, non deve essere dimenticata.
Ma questa è anche la storia di una famiglia che non si è mai arresa. La vedova e i due figli per anni hanno cercato la verità, sfidando la potente mafia dei corleonesi che in quegli anni seminava morte nell’Isola. Una battaglia forte in particolare quella della vedova Vita D’Angelo che per il suo Paolo ha dato tanto, tutto. Fino ad essere oggetto di una grave intimidazione: un mazzo di fiori e dei proiettili sul tavolo di casa a Palermo. Il più classico degli avvertimenti che si legge in un solo modo: “non devi andare oltre”. Ma il coraggio della donna, all’epoca direttrice scolastica a Palermo, si è rivelato più forte della violenza mafiosa e della paura. Non si è arresa, non si sono arresi i figli, sperando fino alla fine nella verità e nella giustizia. Vita D’Angelo è riuscita soltanto dieci anni dopo a restituire l’onore al marito, additato per troppi anni come un colluso. “Mia madre – sottolinea Tiziana Ficalora – è una donna coraggiosa, degna moglie di mio padre. La verità era sotto gli occhi di tutti ma nessuno la voleva vedere, lei l’ha solo messa su un piatto d’argento. Dopo l’atto intimidatorio mia madre si è rialzata più forte di prima, non ha ceduto. Hanno cercato di delegittimarla così come hanno fatto con Peppino Impastato e sua madre. Mia madre è stata eccezionale e io sono orgogliosa di entrambi”.
A raccontare il movente del delitto Ficalora nel corso del processo è stato il collaboratore di giustizia di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca. La Corte d’Assise d’Appello di Palermo dopo tanti anni ha confermato la sentenza di condanna di primo grado all’ergastolo per il castellammarese Gioacchino Calabrò e condannato a dodici anni di reclusione, con il rito abbreviato, il sanguinario boss Giovanni Brusca. Sentenza poi confermata anche in Cassazione definitivamente nel 2004. “Per noi giustizia è stata fatta, si è fatta luce sull’omicidio, ma non voglio parlare di questo … non voglio parlare di queste persone, per me non esistono, non voglio dare loro questa importanza. Non sono degni di nessuna parola” – commenta Tiziana Ficalora ad Alqamah.it.
“Mio padre – aggiunge – merita gli onori perché ha perso la vita facendo il proprio dovere da comune cittadino, ma soprattutto da uomo libero. Mio padre non è una vittima di serie b.”
“Oggi Castellammare è cambiata, ha acquisito maggiore consapevolezza su certi temi. Vive di turismo e mio padre è stato sicuramente un pioniere in merito, ha capito prima di tutti, più di venticinque anni fa, che il territorio poteva vivere di turismo. Spero che Castellammare – conclude – continui in questo percorso di crescita, soprattutto per i più giovani. Spero che il suo sacrificio sia servito a qualcosa e che si guardi mio padre come uno che aveva capito prima degli altri l’importanza del turismo in questa città. È morto da uomo libero e non si piegava a niente, così come mia madre. Mia madre e mio padre sono una persona sola, un’unica entità”.
Un’unione interrotta dalla violenza mafiosa ma che continuerà a durare per sempre.