Caso Miserendino, l’analisi dei fatti
Nell’ultima settimana, la notizia degli arresti domiciliari per il commercialista Luigi Miserendino, disposti dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo, Walter Turturici, è rimbalzata all’improvviso dalla Sicilia alla ribalta nazionale.
Se è passata per lo più inosservata all’attenzione della pubblica opinione, il caso giudiziario sta scuotendo il mondo dell’antimafia istituzionale e sociale non solo dell’isola, visto che Miserendino era conosciuto in tutta Italia come professionista integerrimo e stimato, tanto da essere invitato a raccontare in contesti universitari e associativi la sua lunga esperienza di amministratore giudiziario di beni confiscati alla criminalità organizzata.
Una complessa indagine della Procura di Palermo, guidata dal procuratore aggiunto Salvatore De Lucae dai sostituti Roberto Tartaglia e Annamaria Picozzi, ha portato gli uomini del GICO e del Gruppo Tutela spesa pubblica del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza a svelare come, nonostante la fase dell’amministrazione giudiziaria disposta dal Tribunale di Palermo, l’imprenditore Giuseppe Ferdico continuasse ad essere il vero dominus dei suoi beni, tra cui diversi supermercati, a partire dal grande centro commerciale di Carini, alle porte del capoluogo siciliano.
Nel recente passato, Ferdico era stato imputato di concorso esterno in associazione mafiosa: nell’ipotesi accusatoria la velocissima ascesa dell’imprenditore, soprannominato il “re dei detersivi”, era stata attribuita all’appoggio dei boss di Cosa nostra Lo Piccolo e Pipitone, cioè i ras dell’aristocrazia mafiosa del quartiere palermitano Tommaso Natale e di Carini. Il Gico della Finanza aveva indagato a lungo su questo imprenditore che, nell’arco di dieci anni, aveva moltiplicato esponenzialmente le sue entrate, passando dalle bancarelle dei mercati di paese alla proprietà di centri commerciali. Eppure da quel processo Ferdico era uscito assolto, ribadendo a gran voce la sua fiducia nella giustizia ma soprattutto il suo ruolo di vittima di estorsione.
Nonostante l’assoluzione, i guai per lui erano continuati in fase di misure di prevenzione. Era tornato sotto i riflettori della cronaca, nel marzo di quest’anno, quando nei suoi confronti era stata disposta la misura della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno a Palermo, in quanto soggetto “socialmente pericoloso”. Segno questo che sicuramente qualcosa ancora non quadrava.
In questi ultimi mesi, è infatti emerso con evidenza il fatto che, sebbene ufficialmente il gestore del centro commerciale di Carini fosse Francesco Montes, finito anche lui agli arresti, Ferdico era di fatto l’unico padrone indisturbato dei suoi beni, nel silenzio incomprensibile dell’amministratore giudiziario, Miserendino appunto. Mentre Ferdico deve rispondere delle imputazioni di intestazione fittizia di beni ed estorsione aggravata dal metodo mafioso, al commercialista è stata contestata la pesante accusa di favoreggiamento, personale e reale, per aver ridotto l’amministrazione giudiziaria ad un “mero simulacro”.
La Guardia di Finanza ha intercettato il professionista, accusato di non aver adempiuto all’obbligo collegato al suo incarico di segnalare le gravi anomalie nella gestione dei beni a lui affidati a chi avrebbe potuto prendere provvedimenti, in primis il Tribunale di Palermo ma anche l’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e confiscati.
Quale è stata la causa di quest’imperdonabile omissione di doveri d’ufficio? Connivenza colpevole oppure più semplicemente paura? Difficile davvero dirlo, anche perché le intercettazioni andrebbero ascoltate e non solo lette, per cogliere anche le sfumature di quanto è stato captato dalle microspie della Finanza.
Certo sembra davvero strano che un professionista, che in passato aveva dato prova di reggere in altri contesti a ben altre pressioni, sfuggendo tanto alle lusinghe quanto respingendo le minacce, sia ora accusato di essere succube del “re dei detersivi”.
Ricordiamo che Miserendino nella sua veste di amministratore giudiziario, proprio in ragione delle conoscenze maturate durante l’esercizio del suo ruolo di gestore di beni confiscati alla mafia, era stato chiamato a testimoniare nei processi riguardanti influenti boss del trapanese come Virga e Mazzara, ma anche politici di primo piano, come l’ex senatore Antonio D’Alì.
Per ora fermiamoci qui e rimaniamo in attesa dei prossimi step nella indagine della Guardia di Finanza e dei probabili risvolti processuali ad essa collegata. Per rispetto del lavoro della magistratura, e anche di quanti sono stati fatti oggetto di provvedimenti di custodia cautelare, è preferibile infatti non aggiungere altro, anche perché il quadro che è emerso fino ad oggi è intricato e, ad accertamenti ancora in corso, il rischio sarebbe di pontificare a vuoto.
Il bambino e l’acqua sporca
A questo rischio – cioè quello dell’invettiva a buon mercato – non si sono invece voluti sottrarre “i soliti noti” e, a sentir loro, sempre “dentro a le segrete cose”, che hanno colto al volo la notizia degli arresti disposti per Miserendino per sferrare un improbabile attacco all’antimafia istituzionale e sociale di quell’angolo di Sicilia.
Nel giro di pochi giorni – anzi di pochissime ore – su alcuni blog e sui social network sono apparsi i primi commenti alla vicenda degli arresti domiciliari di Miserendino: post inizialmente timidi e fugaci, poi via via sempre più circostanziati e pepati, tanto da trasformarsi in breve tempo in veementi accuse al lavoro svolto sui beni confiscati, in particolare in quel di Trapani, dove Miserendino si è sempre speso professionalmente nell’amministrazione giudiziaria di alcuni complessi aziendali sottratti ai boss.
Ad alcuni – “i soliti noti” e sempre “dentro a le segrete cose”, cui facevamo cenno prima – non è parso vero di sfruttare questa brutta storia, per tirare fuori dall’armadio espressioni come “paladino dell’antimafia”, “stampa amica”, “giornalista icona” e attaccare in un solo colpo non solo Miserendino, ma anche il referente trapanese di Libera, Salvatore Inguì, il collega Rino Giacalone, il pm Andrea Tarondo, alludendo a “compagnie di giro” responsabili di chissà quali danni o complotti.
Insomma, il solito e indigesto fritto misto, già servito in tavola a quelle latitudini in altre circostanze e peraltro già rimasto sullo stomaco agli stessi che lo avevano cucinato..
Sui social inoltre hanno fatto nuovamente capolino altri fustigatori dei peccati dell’antimafia sociale, in particolare di Libera. Anche questo uno sport nazionale abbastanza praticato negli ultimi anni..
Sembra quindi tornare di qualche utilità il vecchio adagio che parla del bambino e dell’acqua sporca.
Se dell’acqua sporca vi abbiamo fin qui offerto qualche assaggio, preferiamo soffermarci più volentieri nel raccontare qualcosa del bambino.
Il bambino in questa storia è tutto quanto di positivo è stato realizzato nel trapanese in tema di beni confiscati, anche con l’apporto determinante di un amministratore giudiziario come Miserendino e che invece, OGGI, viene fatto oggetto di contumelie e polemiche.
Basta forse uno slogan, perché racconta una storia che vale per tutte le altre: “Insieme si può!”.
È questo, infatti, il grido di vittoria che ha accompagnato la rinascita della “Calcestruzzi Ericina Libera”, il complesso aziendale del boss Vincenzo Virga, confiscato definitivamente nel giugno 2000 e per la cui sopravvivenza si è battuto come un leone il compianto prefetto Fulvio Sodano. Un’azienda destinata a scomparire per volere della proprietà di un tempo e di soggetti ad essa collegati e che, invece, soprattutto grazie al lavoro della cooperativa formata dai suoi dipendenti, oggi continua ad esistere e produrre in condizioni ancora davvero difficili, visto che il libero mercato in quel territorio è spesso falsato da altri attori e strani intrecci.
Non dimentichiamo che Miserendino, come amministratore giudiziario, è stato parte attiva nel fare uscire dall’emergenza il percorso di riattivazione della Calcestruzzi Ericina, altrimenti destinata al fallimento. E la sua presenza nell’organigramma della società è stato un ulteriore segnale di condivisione con i lavoratori, anche se oggi viene interpretato come una presenza ingombrante, alla luce degli ultimi fatti.
Accanto alla Calcestruzzi Ericina, vi sono poi tanti altri progetti, altri beni restituiti alla collettività, grazie alla collaborazione tra istituzioni e associazioni.
Oggi a finire sul banco degli accusati non è tanto l’amministratore finito agli arresti domiciliari, ma piuttosto la cooperazione tra soggetti diversi, accomunati dal medesimo scopo di restituire alla collettività i beni sottratti ai clan mafiosi.
Si inizia cioè con l’accusare Miserendino, per poi passare a criticare aspramente giornalisti, magistrati e, per finire, Libera. A dare più che mai fastidio è ancora quello slogan: “Insieme si può!”. Questo “insieme” è finito, non da oggi, nel mirino non solo di inconsapevoli blogger ma anche di raffinati censori dell’antimafia.
La battaglia che si combatte tra Trapani e Palermo in tema di beni confiscati è quanto mai centrale per il futuro dell’antimafia sociale a livello nazionale: gli interessi in campo sono davvero tanti, lo si è visto recentemente in occasione delle polemiche successive all’approvazione del Codice antimafia. Ecco perché si utilizza ogni mezzo per delegittimare, per alludere, per sbeffeggiare quanti – singoli, giornalisti, associazioni, magistratura – ogni giorno si battono per un vero utilizzo dei beni tolti alle mafie. Molti sono strumento a loro insaputa, altri sono coscientemente schierati.
La vicenda degli arresti domiciliari di un amministratore giudiziario, il cui operato fino a pochi giorni fa era sinonimo di garanzia e trasparenza, non solo per la società ma anche per le istituzioni, è pertanto assolutamente funzionale allo scopo.
Se il groviglio di interessi economici, prima ancora che criminali, tra Trapani e Palermo è ancora oggi il mefitico brodo di cultura che alimenta Cosa nostra, mai doma del tutto, è impensabile che ci si lasci scappare la ghiotta occasione di buttare il bambino con l’acqua sporca.
A tutti noi, ciascuno secondo la propria responsabilità, il compito di impedire che ciò accada, ricordando il passato e facendo luce sul presente, senza sconti per nessuno.