Mafia, arte e il potere di Messina Denaro

Il sequestro contro il commerciante e collezionista Gianfranco Becchina, una inchiesta tra Sicilia, Svizzera e musei di mezzo mondo

Le trame mafiose che passano anche attraverso la rete dei trafficanti di opere d’arte. Un filo che unisce la Sicilia dei Messina Denaro con la fortezza Svizzera dove si racconta può essere rimasto latitante Matteo Messina Denaro. Cosa nostra, denaro, casseforti segrete e armi. Tutto concentrato a Berna, Basilea e dintorni. Quello dell’arte è il quarto mercato più redditizio del crimine internazionale. E lo sanno bene i mafiosi. La Procura antimafia di Palermo, grazie anche a diverse rogatorie internazionali, ha messo insieme i pezzi rilevanti di numerose indagini condotte tra Palermo, Roma e il “paradiso” elvetico dove certi “colletti bianchi” mafiosi hanno partecipato con il boss belicino a intessere accordi e collegamenti. L’inchiesta della Dia di Trapani ha assestato un duro colpo contro uno dei personaggi più famosi di queste inchieste, il commerciante d’arte Gianfranco Becchina, 78 anni. Arricchimento, sostengono i pm, grazie al sostegno di Cosa nostra e per garantire alla mafia trapanese canali di investimento dei proventi illeciti. Un nome, quello di Gianfranco Becchina, che figura addirittura in un rapporto dell’Fbi, negli archivi federali è conservato ancora il “Becchina dossier”, a proposito di commerci internazionali illeciti di opere d’arte. Becchina ha avuto adesso sequestrato un patrimonio di oltre 10 milioni di euro, compreso un antico edificio in pieno centro storico che nel 1200 fu costruito per ospitare Re Federico II, il Castello di Bellumvider, diventato poi la casa dei principi di Castelvetrano, Pignatelli, Aragona e Tagliavia. E ieri dopo il sequestro un misterioso incendio ha interessato alcune stanze del palazzo, quelle che erano usate come abitazione da alcuni congiunti di Becchina. L’arte è stata sempre una delle piste seguite dai “cacciatori” per arrivare a Messina Denaro. Su Gianfranco Becchina è sempre rimasto il sospetto di far parte di una «gang» fatta da dandy ed elegantoni, che nel tempo sarebbero stati responsabili dei furti d’arte in Italia e in mezza Europa, commerci d’arte intrecciati con Usa e Giappone. A raccontare queste storie di mafia ed arte “rubata” è stata una maxi indagine della Procura di Roma, culminata nel sequestro di cinque magazzini in Svizzera dove erano custodite opere d’arte e libri mastri del commercio e dalla quale Becchina ne è però uscito per prescrizione. Becchina avrebbe svolto il ruolo di «collettore dei traffici d’arte nel Meridione». Il filo scoperto unisce il Belice al «Miho Museum» di Koka. Tutto questo circondato dallo scenario mafioso e sovrastato dalla figura del latitante Matteo Messina Denaro, al quale Becchina attraverso il re dei supermercati Despar, Giuseppe Grigoli, avrebbe fatto arrivare il denaro per la latitanza, come lo stesso Grigoli, al quale è stato confiscato un patrimonio da 700 milioni di euro, ha deciso di raccontare rompendo il muro del silenzio che lo accompagnava dal giorno del suo arresto, nel 2007. Una passione, quella per l’arte, ereditata da Messina Denaro jr, al pari di quella mafiosa, dal padre, il padrino Francesco Messina Denaro, morto nel novembre del 1998 , riconosciuto essere stato uno dei primi «tombaroli» del parco di Selinunte. Si racconta che preziosi reperti archeologici portati via da quel sito dal «patriarca» di Cosa Nostra trapanese, siano finiti in una collezione privata di un sacerdote di Calatafimi, ora deceduto, nella cui canonica, a un tiro di schioppo dalla piana di Pianto Antico famosa per lo scontro tra garibaldini e borboni, l’anziano Messina Denaro con il figlio sarebbero stati nascosti durante la loro latitanza. Un’altra parte di reperti archeologici sarebbero finiti in un «caveau» in Svizzera, anche «un’anfora d’oro da un miliardo e mezzo di vecchie lire». In alcuni «pizzini» dove racconta la sua vita, Messina Denaro scrive non a caso che con i traffici di arte «potrebbe mantenersi»: con il traffico di opere «ci manteniamo la famiglia» scriveva il giovane boss all’inizio della carriera criminale ai sodali. Francesco Messina Denaro fu autore negli anni 60 del furto del prezioso «Efebo», rubato all’interno del Municipio di Castelvetrano. La statuetta in bronzo di appena 85 centimetri, oggi custodita dentro un museo super protetto a Castelvetrano, apposta costruito, era denominata come “u pupu”, all’epoca usata come porta cappello nell’ufficio del sindaco. Tutti allora ne disconoscevano il valore, l’anziano don Ciccio invece sapeva bene quanto valeva e quando non gli riuscì di venderlo presso antiquari americani, tra i contatti anche il miliardario americano Jean Paul Getty, tentò la via della richiesta di un riscatto, 30 milioni di lire, allora esorbitante cifra, in cambio della restituzione. La Polizia lo recuperò il 14 marzo del 1968 a casa di un collezionista, che ne era il custode, a Foligno, in Umbria. Molti anni dopo, a fine anni 90, Matteo Messina Denaro seguendo le orme paterne tentò a Mazara del Vallo il furto del «Satiro Danzante» , un prezioso reperto bronzeo, opera di Prassitele, appena recuperato (marzo 1998) dal peschereccio «Capitan Ciccio» nel Canale di Sicilia, e che veniva tenuto in «ammollo» in acqua salmastra, in un edificio comunale, in attesa della partenza per Roma per il restauro. Tutto era pronto ma il piano saltò. Il Satiro danzante doveva essere commercializzato “attraverso rodati canali svizzeri” ha raccontato il pentito marsalese Mariano Concetto che doveva compiere il furto. Arte e mafia. Con in mano i libri di storia dell’arte nel 1993 Matteo Messina Denaro scelse gli obiettivi dei monumenti per gli attentati di Roma, Milano e Firenze. La passione per l’arte messa da parte per sostenere l’attacco al cuore dello Stato. E aveva anche pensato ad un attentato nel parco archeologico di Selinunte, mentre Becchina a sua volta aveva cercato di convincere il soprintendente Sebastiano Tusa a diventare consulente per un polo museale da realizzare a Palazzo Pignatelli. I reperti da esporre sarebbero dovuti arrivare dai forzieri tenuti in Svizzera.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.