Punta Raisi, il dovere della memoria

Una storia aperta, quell’aereo caduto in mare davanti Punta Raisi il 22 dicembre 1978

Cristina Scuderi, figlia di Mario Scuderi

Mi chiamo Maria Cristina e nel mio nome c’è già un legame indissolubile col mio passato. Mio padre si chiamava Mario, aveva 35 anni quando è morto mentre mia madre era incinta di me. Per questo mi chiamo cosi. Per 10 anni sono stata la figlia di un morto presunto, morto prima della mia nascita. Un morto presunto è un cadavere che non si trova; è lo Stato che non riconosce amministrativamente la morte di qualcuno pur avendone certezza. La famiglia del morto presunto non ha diritti, ma solo un vuoto, un vuoto senza rassegnazione né dignità come solo il dramma dell’insepoltura, raccontato al tempo dei greci antichi, può arrecare.

Una situazione così potrebbe sembrare generata da una guerra, ma quando io nasco, l’Italia è ufficialmente fuori dalla guerra da più di 30 anni. E mio padre è semplicemente morto mentre tornava a casa per Natale da un viaggio di lavoro.

Era a bordo di un volo civile della compagnia di bandiera italiana, insieme ad altre 128 persone.

È la sera del 22 dicembre quando il volo Alitalia AZ4128 parte da Roma diretto a Palermo e dopo circa 50 minuti di viaggio regolare, mentre è in posizione di avvicinamento all’aeroporto di Punta Raisi sparisce dai radar alle 00:38. Quando viene localizzato da alcuni pescatori a 3 miglia dall’aeroporto, è già semiaffondato e in acqua galleggiano insieme a diversi sopravvissuti, kerosene e bagagli.

Cresco e ho tante domande: come sono morti quei 108? Cosa è successo a quell’aereo? Chi c’é in aria quella sera sopra Punta Raisi? E che aeroporto è Punta Raisi, primo per pericolosità in Italia? Perché lo è? Perché cocaina e dollari transitano sul nastro bagagli proprio di questo scalo come aveva scoperto Boris Giuliano? Cosa diceva Peppino Impastato sugli interessi politico-mafiosi di questo aeroporto? E perché in un piccolo spazio di cielo sopra Palermo il 1972 e il 1980 “cadono” tre aerei civili?

Su questa storia ci hanno raccontato così tante cose diverse che è praticamente impossibile trovare la verità; al contempo ci hanno raccontato così poco che è impossibile ricordare che sia accaduta.

Ci hanno detto che i piloti erano ubriachi e drogati. Ma nelle loro autopsie abbiamo trovato solo una compressa di analgesico.

Ci hanno detto che in cabina dovevano aver aperto una bottiglia di champagne, che nelle piste audio c’era un chiaro rumore di un tappo di sughero che saltava.

Ma la bottiglia trovata in cabina era ancora sigillata.

Non ci hanno detto invece che un rumore di sottofondo, presente nella registrazione audio, ha reso indecifrabili parte delle conversazioni, né ci hanno spiegato cosa eventualmente lo ha generato.

E ancora, che le trascrizioni audio ottenute, provengono da un centro dove sono state decifrate, riscritte e tradotte da tecnici.

Non ci hanno detto invece che il radiofaro era disallineato e conduceva quindi i piloti fuori rotta.

E ancora che non c’era il radar di avvicinamento, rimasto imballato a Roma, acquistato dal 1972 in seguito alla strage di Montagnalonga, costata la vita a 115 persone.

Non ci hanno detto che il T-VASIS (sistema luminoso di avvicinamento), unico segnalatore ottico ad aiutare in atterraggio a punta Raisi nel 1978, in quei giorni era guasto, come segnalato dai piloti.

Non ci hanno detto che da tempo era stato chiesto dalle associazioni nazionali piloti e controllori di volo di chiudere l’aeroporto nelle ore notturne.

Ci hanno detto però che i piloti avrebbero sbagliato manovra e avrebbero confuso le luci riflesse in acqua per quelle di pista.

Non ci hanno detto che quella sera una pista era chiusa per manutenzione, ma le sue luci erano state lasciate accese mentre per quella dove doveva atterrare il DC 9 erano in funzione al minimo.

Ci hanno detto che coloro che si sono salvati sono stati fortunati perché soccorsi casualmente dai pescatori che erano in zona, ma non che la motonave italiana che navigava in quelle acque sentendo la richiesta di soccorso non si è fermata, nè che l’ufficiale che non rispose all’ SOS, indagato per omissione di soccorso, fu assolto per amnistia.

Non ci hanno detto che i soccorsi ufficiali sono arrivati solo dopo 2 ore, in quanto le motovedette di servizio al porto erano tutte guaste.

Ci hanno detto che non ci sono state interferenze con altri voli ma non abbiamo le prove.

Non ci hanno detto che una lettera anonima accusa un ministro della Repubblica, in volo nello stesso momento, di aver interferito sulle manovre del DC 9 chiedendo la precedenza in atterraggio.

Non ci hanno detto che questo ministro per competenza sarà colui che nominerà una commissione di inchiesta.

Non ci hanno detto perché il registratore di dati tecnici, risulta privo della parte di nastro relativa al volo in questione.

Ci hanno detto che avevamo tutti i mezzi tecnici per effettuare i recuperi del relitto e delle salme, ma non che in 17 sarebbero rimasti per sempre dispersi.

Non ci hanno detto perché il relitto, con il suo equipaggiamento, è stato venduto come ferro vecchio a uno sfasciacarrozze di Palermo. Né perché non è rimasto custodito in un hangar o in un luogo di pertinenza militare come per altri relitti in casi analoghi.

Non ci hanno mai detto che quel relitto era un corpo di reato, e che avrebbe potuto dire tante altre cose se non fosse stato inquinato e alterato in quel modo, nè se c’era per caso esplosivo a bordo, dato che nessuna perizia balistica è mai stata fatta

Però hanno scelto di assolvere tutti gli imputati: direttori dell’aeroporto, ufficiali in servizio quella notte, responsabili dell’aviazione e navigazione aerea.

Non ci hanno detto chi è colui che da anni scrive su wikipedia – spesso con il nome di Super80 – sui social network, dove gestisce anche un gruppo per la memoria del 23 dicembre, apre e chiude siti internet a tema dando informazioni false e piene di confusi dettagli tecnici su questa storia, su quella di Montagnalonga e su quella di Ustica.

Né perché questa persona, tenti di carpire informazioni e documenti da chiunque sia entrato in contatto con questi fatti, familiari delle vittime inclusi, salvo poi modificarne e confonderne il contenuto e senza perseguire un fine chiaro, ma traendo piuttosto in inganno chi in buona fede lo contatta.

La verità è un valore, sempre. Non è una merce che si vende, che si compra o si scambia on line. Il giornalismo è una professione seria, che si costruisce nel tempo e su strade dritte e “tracciabili”. I giornalisti non hanno acronimi né nomi utenti, ma solo firme con nome e cognome.

Questa la rabbia con cui io, figlia di morto non più presunto, devo fare i conti.

Una rabbia che da qualche anno convive con il coraggio di raccontare di lui, e di tutta questa vicenda come famigliare e come cittadina.

Ho imparato col tempo a nutrire e coltivare, seppur con difficoltà, la speranza; è successo dal primo incontro con don Luigi Ciotti, che con la sua vicinanza ha tolto quell’oblio e quel pudore personale che mi impedivano di parlare.

Mio padre mi manca, si. Si può avere nostalgia per chi non si è mai conosciuto? Si, si può avere persino malinconia, anche se si tratta di un affetto mai provato.

Ogni tanto lo sogno; una volta ho sognato di andarlo a prendere proprio in aeroporto, giravo a vuoto senza trovarlo, finché non fu lui a trovare me e con ironia mi apostrofò “non mi riconosci”? Poi andammo via con la sua macchina, quella che ancora adesso si trova in un garage sotto uno spesso strato di polvere, insieme con tutti gli abbracci e la tenerezza non scambiati.

fonte viviliberi.it

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