Il resoconto dell’incontro a Trento presso la Facoltà di Sociologia, organizzato nel trentennale dell’uccisione del giornalista
«Ci sono due categorie di uomini, chi si mette al servizio degli altri e chi dagli altri si fa servire. E non ho dubbi su da quale parte stesse Rostagno», afferma il sindaco Alessandro Andreatta aprendo il convegno, mentre il direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale ripercorre il travagliato periodo in cui via Verdi ha lungamente latitato nel ricordare uno dei protagonisti dei suoi anni iniziali: «Il rapporto difficile dell’Università nei confronti della memoria di Rostagno è lo specchio della difficoltà più generale di far decantare l’esperienza del ’68, che ora si vuole dipingere come fonte del degrado della società italiana. Noi qui oggi onoriamo la memoria di un eroe civile, ma lavoriamo per una società, come Brecht ha messo in bocca a Galileo, in cui di eroi non ci sia bisogno». Un quadro personalissimo di Rostagno, quasi intimo, lo tratteggia invece il professor Riccardo Scartezzini, amico e compagno di studi a Sociologia: «Era mimetico, si adattava ad ogni circostanza, ma era difficile parlare con lui di aspetti biografici: il suo interesse era concentrato solo sulle tesi da discutere. Ed era più interessato a discipline come storia, psicanalisi e antropologia che alla sociologia in senso stretto. E nelle assemblee, che erano vere palestre di competizione intellettuale, si è affermato come leader proprio perché più duttile e preparato di tutti noi». Poi il ricordo tra pubblico e privato della moglie Chicca Roveri: l’impegno politico («invitavamo i proletari del quartiere Zen di Palermo e Mauro cucinava la polenta»), i giorni di Poona («adorava farsi fare le treccine ma dovevano essere perfette»), l’animo sempre mite e temperante («mai lo ho sentito parlar male di qualcuno»). E dopo ogni vita, mai l’idea di trovarsi un lavoro: «Ma la base della sua esistenza è sempre stato lavorare con gli altri, e per gli altri». Fino al tragico incontro con la mafia, cioè con quanto poteva essergli di più opposto, «un sistema che guarda solo al denaro e al potere, a cui Mauro non ha mai pensato». Così invece la figlia Maddalena prima del passaggio sulla mafia citato a inizio articolo: «Parlava poco del passato, ho scoperto cose di lui solo venendo qui la prima volta nell’88. E sì, Trento è stata tanto importante per Mauro, sennò per il ventennale del ’68 non sarebbe mai tornato».
Nel pomeriggio, ancora di fronte a tanta gente in piedi, Adriano Sofri parte dalla nozione di “destino”. E racconta di aver trascorso i recenti giorni d’estate in Alto Adige immerso in letture su Cesare Battisti («che non scappa e si fa catturare», ne descrive il patibolo («come una via crucis»): non fa il nome di Rostagno, ma il parallelismo è chiaro. «Intere generazioni hanno avuto bisogno di eroi e martiri ma la nostra del ’68 è stata la prima “leva” non di guerra». Una generazione dunque per la prima volta non mandata al macello, ma qui rispunta il destino. E Sofri cita così Rostagno, Alexander Langer (suicida, sì, ma tutto ci parla di una morte subìta per stanchezza più che cercata) e Alberto Bonfietti, altro compagno di Lotta Continua, morto sull’aereo Itavia nel cielo di Ustica, mentre si recava a Palermo per festeggiare il compleanno della figlioletta. «La morte di Mauro non è stata né voluta né casuale. Se l’è cercata? Lo si è detto anche per Pasolini. Ma dopo il primo colpo di pistola, alla ragazza che era con lui in auto ha detto “stai giù”. Aveva capito subito che cosa accadeva. E ci rimane questo rovello: pochi giorni prima, qui a Trento e a noi amici più stretti, non ha detto nulla di che cosa stava gli accadendo laggiù. Ma chissà se lo avremmo capito». Mentre Peter Schneider, rievocando le sue settimane trentine a cavallo tra 1968 e ’69 quando era ospite di Renato Curcio (raccontate anche nel suo primo romanzo “Lenz), a Rostagno associa soprattutto un termine: che è “coraggio”. «Perché buttava tutto il suo corpo in ogni battaglia che credeva giusta»: come quella volta a Milano, con la testa sui binari del tram in arrivo per protestare contro la garrota in Spagna. Ma coraggio soprattutto nel momento in cui in molti, amici, compagni, si diedero alla lotta armata: «E allora ce ne voleva, di coraggio, per apparire vigliacchi opponendosi all’estremismo. Ma Mauro è sempre stato fedele al suo compito civile: ciò che ha fatto andava fatto, per dare speranza a tutti».
Infine la morte, l’assassinio mafioso. E tocca a Enrico Deaglio spiegare che l’agguato di Lenzi è tipicamente siciliano, perché mette assieme esecuzione e depistaggio. Parla di “aura del delitto”, di segni premonitori: e nel caso di Rostagno l’avviso di garanzia di quei giorni per l’assassinio Calabresi ne fa parte a pieno titolo. Ecco allora scattare le pistole, in un territorio completamente asservito a Cosa nostra, una provincia con il più alto numero di sportelli bancari d’Italia, con la più grande raffineria di eroina al mondo, con omicidi uno dietro l’altro, con tutte le istituzioni (carabinieri compresi) da sempre asservite alla consegna del silenzio. «Un silenzio che Mauro rompeva con le sue inchieste, nessuno come lui è stato così efficace nell’usare la tv contro Cosa nosttra: anche le scolaresche venivano portate in visita negli studi e questo per la mafia era insopportabile, ancor più delle inchieste giudiziarie». Per non parlare di quel procuratore capo che nel 1996, nei giorni dell’arresto di Chicca per il “delitto in famiglia”, chiese addirittura scusa alla mafia per averla sospettata. Infine Claudio Fava, che riprende il “se l’è cercata” evocato da Sofri: «Lo si dice per tutte le vittime di mafia: penso a don Puglisi, a Libero Grassi. Ma equivale a uccidere due volte. E a che serve ora parlare di Rostagno se non si parla di Mario Ciancio, lo storico editore del quotidiano La Sicilia di Catania a cui appena pochi giorni sono stati sequestrati beni per 130 milioni di euro, scoprendone conti in paradisi fiscali? E si sapeva di mafiosi in redazione a protestare dopo che ne era stato pubblicato il nome, e del direttore che “cazziava” il giovane cronista che si era permesso. Non facciamo un buon servizio a Mauro se non raccontiamo l’oggi: ora la categoria lo riconosce giornalista, per anni lo ha considerato abusivo della professione. Ma la mafia lo riconosceva eccome, al punto di ucciderlo». Speranze? Sì: «Non pensate solo a Saviano, sono centinaia i giornalisti al sud che lavorano senza garanzie, sottopagati, minacciati. Ed è questa l’eredità che ci lascia Mauro».