Il terribile racconto di Mark, esperto di computer, antenne e tv, costretto a fuggire dal suo Paese soltanto perché cristiano. “Mai più in Nigeria”
“Sono felice di raccontarti la mia storia, ma ti chiedo di non rivelare il mio nome: ho paura”. Mark, nome di fantasia, non riesce a nascondere le sue paure. Lo tranquillizziamo, ma la sua storia è terribile. “In Italia il clima in questi anni è cambiato parecchio e io ho paura di essere rimandato in Nigeria. Non voglio tornare. Non posso. Tornare vuol dire condannarmi a morte.” Con gli occhi lucidi Mark racconta, si apre piano piano. Ha bisogno di conoscere bene chi ha di fronte. Riusciamo a fidarci l’uno dell’altro, entriamo in empatia. Ridiamo, ci emozioniamo, torniamo seri.
Mark è arrivato in Italia nel 2015, tra pochi mesi saranno quattro anni. Parla bene l’italiano, anche se lui dice di no. Ha studiato in Italia, scuole elementari e medie. La sua è una storia terribile. Costretto a fuggire per motivi religiosi. Qualcosa che per noi può apparire assurdo, in Nigeria, invece, è realtà. Lui ha studiato tanto, si è diplomato in Africa. È un esperto di computer, antenne e parabole. “In Nigeria lavoravo in un azienda di antenne. Mi piaceva molto quel lavoro, avevo studiato tanto per poterlo fare. Non avevo la minima intenzione di fuggire, non mi era mai passato di mente. Stavo bene, ma improvvisamente tutto cambia.”
Tutto cambia. Mark è cristiano cattolico, la sua famiglia è molto cattolica. Ma in Nigeria esistono tante religioni diverse, alcune, fanno capo a dei piccoli gruppi paragonabili a delle sette, praticano dei riti arcaici, sacrificano animali e, a volte, anche persone. “Sono dei gruppi molto violenti ancora presenti in Nigeria. Io, che sono il figlio più grande dovevo entrare nel loro gruppo. Tutti i figli maggiori dovevano. In caso contrario mi avrebbero ucciso. Mio padre si è opposto e per questo ha pagato con la vita”.
“Sono un perseguitato. Io non volevo andare via dalla mia città, ma avevo paura di morire. Un giorno, per convincermi ulteriormente, mi rapirono. Poi, come avvertimento, con un coltello….”. Mark lo mostra: un grosso taglio su un arto. Un taglio profondo, si vede la pelle scavata. “È stato quello il momento in cui decisi definitivamente di andare via, in caso contrario mi avrebbero ucciso come avevano fatto con mio padre”. Ma prima di andare via fa una scelta difficile, coraggiosa, quasi rivoluzionaria in Nigeria: denuncia tutto alla polizia. Ma da loro poche rassicurazioni. Capisce subito che non sarebbe cambiato nulla. Così, l’unica alternativa, era fuggire via. Fuggire da quella setta religiosa e sanguinaria di cui Mark conosce solo il nome in africano, non riesce a tradurla. Una setta violentissima. Parte nel cuore della notte dopo poche ore da quel terribile sequestro. Raggiunge il confine, passando dal Niger. Anche lui sale sul grosso pick-up per attraversare il deserto del Sahara. “Eravamo una cinquantina nel deserto. Per due settimane siamo rimasti bloccati in mezzo al nulla. È stato terribile.” Il pick-up su cui viaggiava Mark si rompeva continuamente e aggiustarlo non era semplice, sono rimasti bloccati per parecchi giorni. “Il cibo era pochissimo e razionato, nel deserto non hai speranze o rifugi sicuri. Solo sabbia che scotta. L’acqua nei bidoni sotto il sole era bollente, quasi impossibile da bere. Il caldo era insopportabile.” Bruciava la pelle, bruciava l’anima. “Ho pensato di morire lì.”
Dopo i diversi problemi nel deserto, raggiunge la Libia, arriva a Sebah. “Venni portato immediatamente in una casa distrutta dai bombardamenti, era totalmente sventrata dalla guerra. Da lì, poco dopo, degli uomini armati mi portarono in un centro, una specie di prigione senza sbarre. In Libia le armi non sono così rare, – spiega sorridendo al nostro stupore – ne ho viste tante armi.” Mark resta in quel centro, in cui convivevano tantissimi uomini e donne di cui non riesce a dare un numero preciso, quattro mesi. “Eravamo sicuramente centinaia, molti giovanissimi. Da noi volevano soldi. Io non avevo niente, proprio niente. Qualcuno pagava e riusciva ad uscire presto, io rimasi lì per quattro, interminabili, mesi. Il pane? Razionato. Se mangiavi il tuo pezzo di pane di pomeriggio, la sera non mangiavi. Era così, tutto razionato, anche l’acqua. Personalmente non ho subito violenze in quel centro, non ho visto morire nessuno, ma eravamo in prigione. Dove la vita stessa è sospesa. Nei lager libici siamo soltanto numeri e, soprattutto, bancomat”. Mark si trova in un limbo. Quattro mesi senza contatti con l’esterno, senza speranze di pagare i trafficanti. Era solo e senza un centesimo. “Sono riuscito ad uscire per una rivolta, un attacco che si è verificato nel centro. Ricordo un’irruzione e poi la fuga.” Mark fugge insieme ad altri ragazzi fino a raggiungere la spiaggia di una città di cui non ricorda il nome. Uno dei signori che aveva contribuito alla loro fuga, li guida verso il punto d’incontro per l’imbarco. Sono momenti concitati, Mark pena soltanto alla fuga. Attendono l’arrivo del gommone il giorno dopo. Erano in 115, il numero lo ricorda bene. “Tantissimi bambini e molte donne. Loro stavano al centro, gli uomini ai bordi.” Mark ricorda la forte puzza di benzina e le onde del mar sempre più grosse. La paura di morire e le preghiere. “Ho pregato tanto, perché avevo paura di morire. Il mare diventava sempre più agitato e molti iniziavano a stare male.” Le onde alte rischiavano di capovolgere il gommone. Urla, lacrime, la paura negli occhi dei bambini. Mark non sapeva nuotare. La pura era l’unica compagna di viaggio, oltre alla preghiera. Il viaggio durerà un giorno e una notte. A salvarli ci penserà una nave italiana, l’ha riconosciuta dalla bandiera che sventolava alta. Sbarca a Lampedusa e inizia a girare diversi centri della Sicilia, passando anche dalla provincia di Trapani.
“Qui in Italia ho lavorato inizialmente in campagna, ma senza contratto. Oggi invece lavoro in una ditta con un regolare contratto. Ma non è stato semplice. Nell’ultimo anno le cose si sono molto complicate. Dopo questa nuova legge (il decreto sicurezza, ndr) è più difficile avere tutti i documenti. Oggi fortunatamente ho tutto in regola e lavoro. In Nigeria? Non voglio tornare, più che altro non posso tornare. Mi ucciderebbero. Mai più in Nigeria. Anche mio fratello più piccolo dopo di me è stato costretto a fuggire per lo stesso motivo. Da molto tempo non lo sento più. È partito, ma ad oggi di lui non ho più notizie. Mia madre è rimasta in Nigeria, da sola. Ogni tanto la sento, ha molta paura. Mi piacerebbe costruire qui il mio futuro, l’Italia mi piace molto e mi trovo bene qui in Sicilia”.
Mark oggi lavora, in passato ha svolto anche del volontariato nella Croce Rossa Italiana. Nei suoi occhi tanta sofferenza, tanto dolore per essere stato costretto a fuggire. Costretto a lasciare la sua vita e il suo amato lavoro a causa della sua fede. Oggi prega molto e non demorde. Tanta sofferenza, ma anche tanto coraggio.
La prossima storia sarà pubblicata domenica 14 luglio 2019.
Foto di copertina Massimo Sestini.