I racconti di Nicola Quagliata
La volpe, l’istrice, il cacciatore ed il pesce spada (Parte II)
C’era un noce sul suo percorso a cerchio, altissimo e più nero della notte, e quel noce la volpe l’aveva individuato come suo riferimento nel cammino verso il pollaio, lo raggiunse con calma e si accostò al suo enorme tronco, guardò verso l’ovile e vide l’uomo ed i cani , riprese il suo cammino aggirando una roccia attorniata da palme nane, ancora fece capolino dietro di se e riprese ad avvicinarsi alla rete del pollaio.
Con movimenti misurati, quasi pancia a terra, si avvicinò ad un angolo dove la rete era strappata all’altezza del suolo; nello strappo nascosto dall’erba secca infilò le zampe anteriori e la testa e con le zampe posteriori si spingeva, lentamente e senza alcun rumore in avanti, le galline ancora dormivano l’una accanto all’altra. In lontananza, di là delle case si avvertiva il vocio dell’uomo ed i guaiti dei cani ed attutito il trambusto delle pecore, da una stalla poco a valle un solitario muggito di mucca avvertiva che era notte e nulla accadeva. Quando fu completamente dentro la rete si guardò attorno premendo le zampe anteriori sul terreno per verificare bene la presa per lo slancio ed in un lampo fu tra le galline selezionando istintivamente la preda ed azzannandola per trascinarla via. Tutte si misero a svolazzare ed a starnazzare, si dibattevano e scontravano tra loro protese tutte a mantenersi lontane dall’aggressore; alla volpe non interessava cosa facessero, trascinava la sua preda verso lo strappo da dove era entrata ed ora doveva uscirne con la gallina che le si agitava in bocca, eppure la spinse oltre la rete senza mai lasciarla spingendosi essa stessa fuori e quando ebbe abbandonato del tutto il riparo del pollame stette ferma come a fare il punto, ed in quel momento dalla stalla a valle si alzarono più muggiti come in un dialogo mattutino tra buoi. Più muggiti nella stalla avvertono che già si appresta l’alba, la volpe lo sa, ed ora ha un’ansia in più per affrettare tutta la sua operazione e ritirarsi su monte Sparagio con il cibo, prima che il sole illumini ogni anfratto. Con la gallina che le si agita tra i denti guarda a destra e gira di scatto la testa a sinistra, poi davanti a sé e parte verso la macchia in lontananza a valle della montagna, il suo percorso ora sarebbe stato controvento rispetto ai cani, sarebbe potuta andare non vista, e corse via dal pollaio. Il tratto che la separa dalla macchia è pianeggiante e costeggia le rocce arrossate che scendono dalla montagna, tutto un tratto scoperto e senza vegetazione, un tratto battuto dal fuoco anno dopo anno con le piogge che hanno scavato e portato a valle la terra ed ogni altro seme vegetale, più avanti invece c’è la macchia, intricatissima e buia anche di giorno come la notte, ma per arrivarci doveva scavalcare il filo spinato posto al confino di ogni proprietà, e percorrerla prima del chiarore per non essere avvistata, quel tratto di pianura infatti, privo di vegetazione la lasciava del tutto allo scoperto.
La gallina si agitava nella sua bocca e la volpe correva sicura di sè nonostante quel peso che le pendeva dalla testa e non si scoraggiò davanti al primo reticolato di filo spinato. Non si comprende bene come abbiano fatto i cani a sentire ma la volpe, mentre si districava a passare tra un filo e l’altro sentì alle sue spalle che i cani in corsa le si avvicinavano, e sentì davanti a sé, in prossimità della macchia, due spari ed avvertì i primi bagliori dell’alba, davanti a sé era già alba, lei correva verso oriente. Era l’alba, la volpe con la sua preda aveva dietro di sé i cani e davanti a sé gli spari di un cacciatore. La volpe conosce bene gli spari del cacciatore.
La volpe scavalca e supera il primo filo spinato.
I cani in corsa le si avvicinano. La volpe sente sparare davanti a sé, riprende la corsa.
I cani arrivano al filo spinato, forzano i fili dilaniandosi, ma superano il confine e riprendono insanguinati la corsa per raggiungere la volpe.
La volpe raggiunge i fili metallici di un altro confine, sono tenuti da paletti di cemento, non sono spinati ma sono stretti e per superarli occorre scavalcarli arrampicandovisi.
La volpe si gira ed al chiarore dell’alba vede i cani che hanno superato il filo spinato e stanno per raggiungerla, si volta verso i fili e con uno scatto raggiunge quello superiore, con le zampe anteriori su un filo di mezzo riesce a darsi una spinta e saltare oltre il confine, ma perde la gallina che resta imbrigliata con l’ala sul filo.
Da terra la volpe alza la testa e guarda la gallina che ancora si agita ed i cani che corrono.
La volpe si guarda attorno avvistando poco lontano, nella direzione della macchia, qualcosa che si muove.
Il sole dell’alba corre ed illumina le rocce, gli olivastri e la giummara e ogni altra macchia della vegetazione con la stessa velocità dell’ansia della volpe, delle contrazioni dei suoi polmoni e dei battiti del suo cuore e mentre rischiara la strada ai cani che la inseguono incupisce e rende incerto il suo rientro in montagna.
Ora la volpe torna a guardare dietro di sé i cani che corrono, la gallina in agonia sul filo e con rinnovata curiosità il movimento che aveva avvertito poco prima vicino alla macchia.
Il movimento è rasente le fratte e l’erba verde e bassa delle piogge di alcuni giorni prima, nella esperienza della volpe nessun animale si muove strisciando con pesantezza come avviene alla sua vista adesso, nemmeno la visina che abbia ingoiato un merlo oppure poteva essere la cufuruna che a quell’ora pure stava ritirandosi dentro a qualche petraia; ad uno guardata più attenta scorge gli aculei lustri del porcospino, e per la lentezza con cui avanza capisce che deve essere ferito, intuisce che la ferita deve essere addirittura mortale e con la rapidità della sopravvivenza deve ora prendere la decisione.
La lotta per la sopravvivenza rende gli animali opportunisti, ora la volpe deve decidere se abbandonare la gallina per cui ha lottato una intera nottata per un porcospino ferito ma di cui non conosce la reale gravità.
Il cacciatore aveva sparato, due colpi diritto nella fratta dove qualcosa si muoveva dietro al tronco di un mandorlo senza più foglie, e dai bagliori degli aculei aveva anche individuato il porcospino, al primo tiro i pallini di piombo avevano fatto saltare la corteccia del mandorlo sul lato sinistro scoprendone il biancore della ferita, il secondo tiro fece saltare la fratta. Il cacciatore intuì che dietro al tronco la preda solamente ferita dallo sparo si stava allontanando e ritenendo rischioso a quell’ora lanciare il cane lo trattenne, valutando di aspettare la piena luce del sole per mandarlo a recuperare la selvaggina, il porcospino ferito non poteva allontanarsi di molto e c’era tutto il tempo per recuperarlo. Intanto il porcospino colpito di striscio si diresse verso la macchia. A metà strada dal punto in cui era stato colpito le forze lo abbandonarono e pur muovendo le zampe non riusciva a mantenersi in piedi e ad andare spedito al sicuro; il colpo ricevuto non gli dava salvezza, disperato muoveva le zampe e si trascinava sopra l’erba trasassi scaglie di selce nera di antica lavorazione, cocci di ceramica frantumata nei secoli dallo scivolamentoa valle col fango.
La volpe raggiunse il porcospino prendendolo per il collo, la bestia morente avvertì i denti taglienti della volpe ed il morso e fu l’ultimo atto della vita che aveva conosciuto,lo trascinò nel folto della macchia dove consumò un primo pasto e mise al sicuro la sua preda per poterla riprendere comodamente nella notte, ora doveva tornarsene nella sua tana sul monte Sparagio.
Nella macchia di rovi e sommacco e frassino rinselvatichito con ancora i segni del mannaloro sul tronco, nel groviglio della selva la volpe aveva ben riposto la sua preda ed il suo pasto per la notte a venire, ma prima che il sole tramontasse arrivò forte e tetro alle sue narici l’odore acre di fumo, e un tremore la prese agli arti ed alla pancia e con quel terrore si affacciò guardando contro vento e vide a valle le fiamme. Rimase a guardare il fuoco che si estendeva lento e divorava ogni cosa sul suo cammino e lo vedeva dirigersi verso quel punto della macchia dove solo le fiamme potevano arrivare.
La volpe non poteva sapere del ricco pescato di una spadara sulle coste tunisine, delle sue reti tirate dal mare brulicanti di pesce spada agonizzante e stipato in fretta ed occultato e trasportato sulla rotta marina, oscurata ai segnali satellitari, che passa per il porto sicuro di Castelvedere.
Nella notte senza luna la spadara entrò tranquilla nel porto e si accostò alla banchina, ad attenderla i bianchi camion frigorifero ed una stadera su cui pesare ogni capo, ed un panciuto ragioniere dalla faccia butterata larga come una pala, che sbadigliava calmo nell’attesa, pronto per il suo compito, registrare ogni pesata come anime del purgatorio, uno venticinque chili, due ventotto chili, tre ventidue chili… e così fino ad oltre una tonnellata di pesce spada pescato con le reti nelle acque tunisine. Nella stessa notte senza luna il fuoco divampava sull’altro versante della montagna e veniva registrato da tutte le sale radio dello Stato, della forestale regionale, della Croce rossa, dei Vigili del fuoco, dei Vigili urbani, della Capitaneria di porto, della finanza, della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, i quali tutti restavano in allarme nel caso di un aumento della velocità dei venti; gli addetti al posto di guardia della forestale regionale a sessanta metri dal punto in cui erano divampate le fiamme, con un camion d’acqua e le radio trasmittenti ed una gip nuova e ben pulita che aveva dato la comunicazione dell’incendio, accesa la gip e messo al sicuro il camion se ne scesero in paese a Castelvedere per partecipare alle ultime prove dello spettacolo della rievocazione di un miracolo della madonna avvenuto nel settecento. Furono le fiamme a divorare i resti del porcospino.