Caso Curia: la difesa di mons. Miccichè parla di vittoria giudiziaria dopo la decisione del Gup, ma l’accusa di peculato per l’ex vescovo resta intatta e anche una parte dell’originario sequestro. A disposizione del vescovo anche un “cassetto miracoloso”
Il dissequestro di circa 60 oggetti sacri, valore all’incirca 1 milione di euro, tra i quali c’è anche un pianoforte, reso efficace nelle ultime ore dalla polizia giudiziaria e deciso dal Gup del Tribunale di Trapani, giudice Samuele Corso, nell’ambito del procedimento penale per il quale è stato rinviato a giudizio l’ex vescovo di Trapani mons.
Francesco Miccichè, imputato di peculato, è scaturito dal venire meno di quelle ipotesi di reato, furto, ricettazione e appropriazione indebita, per i quali il monsignore trapanese era stato inizialmente iscritto nel registro degli indagati dai pm della Procura di Trapani e per i quali era stato spiccato un ordine di sequestro. E se i legali di mons. Miccichè, avvocati Mario Caputo, Francesco Troìa e Nicola Nocera, con una nota gridano quasi ad un successo giudiziario ottenuto facendo intendere di possibili refluenze a loro favore sull’imminente processo, evidenziando che il dissequestro è avvenuto per loro iniziativa, sostenendo che la provenienza di quegli oggetti era lecita, legata a doni ricevuti dal vescovo durante sue visite pastorali e altri oggetti erano di proprietà della sorella “ingiustamente privata del possesso di oggetti a lei cari”, la verità che emerge è ben altra. I magistrati avevano a suo tempo ordinato il relativo sequestro nella forma probatoria, cioè come prova di un possibile reato. Il sequestro fu eseguito dagli agenti delle sezioni di pg della Forestale e della Guardia di Finanza. Quei reperti sarebbero stati la prova dei reati contestati all’epoca contestati, furto, ricettazione e appropriazione indebita, reati che oggi non hanno fatto parte della richiesta di rinvio a giudizio che contro l’ex vescovo Miccichè è stato formalizzato dalla Procura che contestòì il solo reato di peculato, e il processo si terrà con questo solo capo di imputazione. Il Gup Corso ha quindi dovuto procedere al dissequestro essendo venuta meno la contestazione dei reati posti a base di questo sequestro probatorio. Per il processo per peculato, quindi, nulla cambia. Ma non solo. Siamo dinanzi infatti a un parziale dissequestro. Quando la Procura lo ordinò, nell’elenco delle cose da sequestrare ci furono anche documenti contabili e due personal computer. Oggi restano sequestrati, fanno parte questi delle prove con le quali l’accusa intende dimostrare la colpevolezza dell’ex Vescovo.
Ma c’è anche un altro retroscena. La Procura di Trapani non ha più indagato su quei reati inizialmente contestati, perchè comunque destinati alla prescrizione: fare un ulteriore sforzo investigativo quindi sarebbe stata cosa inutile. Senza fare riferimento a questo scenario i difensori di mons. Miccichè, hanno voluto evidenziare che “da anni si sostiene l’insussistenza giuridica del sequestro”. Per l’accusa di peculato la difesa ha colto l’occasione per dirsi certa di potere “dimostrare l’innocenza”. Il sequestro di quegli oggetti, compiuto dagli agenti di pg, per ordine della Procura (non fu un sequestro di iniziativa degli investigatori operanti), non fa parte delle prove per il peculato, nel fascicolo del pm vi sono ben altre prove, quelle dell’uso personale di oltre 300 mila euro finiti dai conti correnti della Diocesi a quelli personali dell’ex capo della Curia trapanese. Come ben si sa nella fase dell’udienza preliminare il giudice ha dichiarato prescritto il reato di peculato per la data antecedente al 5 ottobre 2007. Ecco nella parte prescritta è possibile trovare particolari che se non sono destinati ad entrare nel dibattimento, evidenziano l’uso disinvolto che mons. Miccichè avrebbe fatto dei fondi destinati alle opere di carità e alle esigenze per il culto. In una delle informative della sezione di pg della Guardia di Finanza è possibile trovare traccia di fondi per 100 mila euro girati dal vescovo Miccichè al cognato, Teodoro Canepa. A indagine avviata quei soldi vennero giustificati come prestito concesso al Canepa, ma i finanzieri non hanno mai trovato nulla, nessuna prova che quei denari erano legati a un prestito. A udienza preliminare oramai conclusa emerge anche un’altra circostanza. Quella che la difesa di mons. Miccichè nel corso della discussione ha cercato di convincere il gup che il reato da contestare fosse quello di appropriazione indebita, per quei fondi passati dalla Cei ai conti correnti della Diocesi, sottratti alla originaria e corretta destinazione a favore della Caritas. Scopo chiarissimo, nel caso di mutamento del capo di imputazione, da peculato ad appropriazione indebita, l’accusa sarebbe stata dichiarata prescritta, per le previsioni del codice penale. Il gup ha invece dato ragione al pm Sara Morri che ha documentato la prova dell’accusa di peculato, facendo finire sotto processo l’ex vescovo che puntava a uscire indenne dall’indagine finita catalogata come “caso Curia”. Agli atti dell’indagine poi ci sarebbe una dichiarazione di mons. Plotti che fu nominato vescovo a Trapani dopo la rimozione di mons. Miccichè decisa nel 2012 da Papa Benedetto XVI. Quando mons. Plotti scoprì che il suo predecessore aveva acquistato un appartamento a Roma e chiese con quali soldi egli aveva già firmato il relativo compromesso, si sarebbe sentito rispondere che l’acquisto era stato fatto “con il soldi trovati ne cassetto”. Un cassetto miracoloso.