Ancora senza soluzioni il sequestro dei motopesca e dei marittimi trattenuti a Bengasi. Oggi la prima telefonata del comandante Pietro Marrone
“Stiamo tutti bene ma aiutateci, datevi da fare, muovetevi”. Le parole sono quelle pronunciate oggi per telefono dal comandante Pietro Marrone. Lui è a capo dell’equipaggio del “Medinea” il motopesca sequestrato dai militari libici lo scorso 1 settembre assieme al peschereccio “Antartide”. Per la prima volta è arrivata a Mazara la voce di uno dei 18 marittimi, gli equipaggi dei due motopesca, trattenuti a Bengasi dalle milizie fedeli al generale Haftar. Una telefonata di pochi secondi, “stiamo bene ma aiutateci, muovetevi, andate a Roma, protestate, fateci tornare perché noi qui stiamo in galera”. Poi la telefonata si è interrotta. “Non posso più parlare, aiutateci”. I pescatori si è saputo sono stati spostati dalla villa dove erano stati portati dopo avere ormeggiato i loro motopesca nel porto di Bengasi.
Gli armatori , Leonardo Gancitano e Marco Marrone, confermano di aver saputo che adesso si trovano in una caserma. Una vicenda incredibile che si inserisce nell’ambito dello scenario del conflitto interno alla Libia. Haftar da una parte, Al Sarraj dall’altra. Il sequestro da parte delle milizie della Cirenaica fedeli al generale Haftar è avvenuto e forse non del tutto casualmente, all’indomani di un bilaterale tra il capo della Farnesina, il nostro ministro degli Esteri Luigi Di Maio e al Sarraj. La diplomazia sta lavorando ma non con la dovuta solerzia secondo la marineria mazarese che segue con armatori e familiari questa vicenda. In video conferenza ieri il ministro Di Maio ha assicurato che le autorità diplomatiche stanno lavorando, “ve li porteremo presto a casa” ha assicurato ai familiari. Ma non ha detto una sola parola sulla trattativa nascosta che si è aperta, quella cioè di un possibile scambio tra Libia e Italia. I libici – milizia Haftar – chiedono il rimpatrio di loro quattro connazionali condannati in via definitiva in Italia a 30 anni di carcere per avere causato un tragico naufragio nell’estate del 2015. I familiari di questi libici hanno inscenato una protesta a Bengasi chiedendo il ritorno in patria dei loro congiunti, sostenendo che sono anche loro vittime degli scafisti, indicandoli come giovani promesse del calcio che venivano in Italia a cercar fortuna. Con i manifesti e gli slogan questi familiari si sono rivolte ai propri governanti libici chiedendo loro di non liberare i pescatori italiani fino a quando non riavranno liberi i loro figli. Non ci vuole molto a capire che quella protesta a Bengasi è stata apposta provocata, indotta per fare arrivare in Italia un messaggio preciso, la richiesta di uno scambio, una liberazione in cambio di un’altra. Negli sguardi prima e nella voce dopo dei familiari dei marittimi mazaresi si coglie il dramma che si sta consumando da due settimane, senza che si prospetti una soluzione. C’è una mamma che parla del figlio e ne ricorda un altro morto in mare per l’affondamento del motopesca, il Nuovo Ngiolò, dove lavorava con altri otto marittimi, era il febbraio del 1996. C’è la moglie di un direttore di macchina che parla e guarda i suoi figli di 15 e 17 anni, per i quali la scuola è oggi cominciata ma il loro pensiero è lontano dai banchi.
C’è la voce accorata di un armatore che sottolinea di non essere a Mazara, ma di essere anche lui sotto sequestro, oggi ha dovuto pagare oltre 20 mila euro all’erario, “non avrò forse i soldi per pagare il mutuo contratto per comparare i motopesca, toglierò soldi alla mia famiglia ma non chiuderò la mia porte a queste famiglie che vivono nel dramma”. Dai loro racconti l’amarezza di non vedere la giusta attenzione su questo sequestro. “Ci hanno spiegato di non alzare la voce perché la trattativa diplomatica non è facile per i due governi che si contrappongono in Libia, ma questi silenzi non stanno servendo a nulla”.