I racconti di Nicola Quagliata
Zu Peppe
Quella mattina zu Peppe si alzò prima del solito, era ottobre e si raccoglievano le olive; lui le aveva già portate al frantoio il giorno prima, e ora doveva essere presente al momento della macina. Doveva controllare che l’olio da portare a casa fosse proprio quello delle sue olive, in gran parte nocellare antiche, e biancolelle, che non avevano toccato terra, colte dall’albero, sfilandole dai rami, tra le foglie puntute e dure come aghi, verdi e argentate; non c’erano passuluna, non una col verme. Di questi del frantoio non c’era da fidarsi, erano capaci di scambiare olio ed olive in tua presenza, davanti ai tuoi occhi, peggio del re di denari nel giuoco a tre carte davanti la villa di Trapani, perciò doveva essere attento e seguire passopasso ogni operazione. Aveva sentito dire dello scambio di olive con la scaltrezza di lasciare in superfice, nelle carteddre, le olive del proprietario e sotto quelle stantie raccolte a terra.
Quando la mattina, appena alzato dal letto e vestito, andò verso il mandorlo cresciuto all’angolo della casa, per guardare il cielo dalla parte del mare, vide che era stellato da un lato e dall’altro vide la luna sospesa sulla linea dell’orizzonte sopra il mare, in mezzo alle sagome nere di Monte San Giuliano e monte Cofano.
L’aria era sospesa nel silenzio del cielo e delle stelle, era mite e sembrava un incanto, non si sentivano neppure le galline, il gallo doveva ancora cantare. Alle narici si sentiva l’acqua, e la terra ne aveva bisogno. Ancora non aveva piovuto dalla fine dell’estate, la terra nelle campagne si spaccava ed il calore penetrava seccando le radici della vegetazione e seccando i semi, per risparmiarla nella stessa acqua ci si lavava la faccia in due, prima uno e poi l’altro o contemporaneamente nel bacile, le mani si lavavano nell’acqua dove si era cucinata la pasta, anche il pozzo aveva smesso di dare acqua chiara e nella secchia saliva torbida del fango del fondo.
Il mulo nella stalla avvertì l’odore di zu Peppe e sentì i suoi passi, e inizio a sbattere gli zoccoli, con delicatezza, per farsi sentire. Zu Peppe, il mulo ed il carretto formavano un trio indissolubile, legato per la vita.
Dei muli si diceva che erano l’incrocio del peggio degli asini con i peggiori cavalli, e delle due specie ereditavano il peggio, per questo venivano alimentati con poco fieno e paglia, e gli si davano i lavori più duri e faticosi, Zu Peppe invece gli dava faveddra, avena, e fieno di suddrafrassa:
– Stumulu è come me, nato sfortunato perché nato mulo, come io nato viddranu, …-
Zu Peppe stava sempre attento a non dare lavori al mulo che potessero infastidirlo. Il mulo non era permaloso, né faceva capricci, accettava come segno di riconoscimento e di rispetto le mansioni che zupeppe gli assegnava, sapendo ormai che quanto più erano laboriose tanto più stretta si faceva la loro relazione, perché non era mai lasciato solo ad eseguire il compito.
Per prima cosa zu Peppe uscì il mulo dalla stalla, lo fece camminare e sgranchire e lo fece abbeverare nella secchia con cui portavano in casa l’acqua. Il mulo beveva solo dove beveva tutta la famiglia e quando erano in campagna nella secchia di cui si servivano per bere e prendere la loro acqua, se nella stessa secchia aveva bevuto un estraneo il mulo lo sentiva e girava la testa e non ci beveva. gli mise in bocca una manciata di avena.
Poi zu Peppe alzò le aste del carretto per aria, dentro la pinnata, e vi fece entrare il mulo a ritroso, lo imbardò e gli fece tirare fuori dalla pinnata il carretto.
Il mulo e zu Peppe erano due inseparabili compagni di lavoro, e siccome il lavoro occupava quasi tutta la loro esistenza, si può dire che erano due compagni di vita, più che amici.
Il mulo di zu Peppe aveva una storia come una favola. Il suo proprietario iniziale, dalle parti di Montelepre, lo aveva venduto ad un commerciate cinisaro che per mestiere comprava e vendeva asini e muli, raramente cavalli perché quelli avevano un mercato speciale per signori. Quel commerciante cinisaro trattava le bestie come cose e non come esseri viventi soggetti al dolore o al benessere del corpo; li comprava ad un prezzo per venderli ad un altro prezzo maggiorato del suo guadagno. Per il tempo che ogni animale, asino o mulo o cavallo, restava con lui, nella sua stalla, gli portava spese che lui conteneva e manteneva basse, limitando l’alimentazione e l’accudimento. In genere bastonate e colpi di nerbo di bue gli servivano a contenere i movimenti degli animali.
Un giorno il cinisaro, con un mulo che doveva vendere ad un contadino di Scianniria, sbarcò, da un parascalmo in disuso della tonnara di Scopello, nel porticciuolo di Cornino, tra monte Cofano e Bonagia. Ma il contadino, che non aveva grande esperienza con gli animali, appena vide il mulo tutto malandato, che appena appena si manteneva sulle zampe, con le ossa che gli sporgevano come in quel cavallo dell’affresco di palazzo Sclafani a Palermo, che lui aveva visto durante una gita nel capo luogo, non a caso intitolato “Il trionfo della morte”, con certe piaghe sanguinanti vicino agli zoccoli, si mise a gridare come un pazzo contro il cinisaro che voleva imbrogliarlo:
– Tu si pazzu, vinisti qua pivinnimila morti?
E scappò via con la coppola tra le mani.
Zu Peppe aveva esperienza coi muli e si convinse che quel mulo non era quel che appariva, che le piaghe erano superficiali, lo sguardo era buono di chi ha fame e che era solamente denutrito. Ma zu Peppe fece il furbo. Si diede l’obiettivo di acquisire il mulo a tutti i costi, ma a metà prezzo di quel che il cinisaro chiedeva.
– Stumulu non arriva a fine settimana che muore- disse zu Peppe, con disinteresse, ai curiosi che si erano accalcati al cinisaro e guartdavano con ribrezzo il mulo. Tutti gli diedero ragione. Qualcuno commentò
– Ma chi volete che se la compri questa povera bestia?
Il cinisaro si accorse subito che nessuno avrebbe comprato il mulo e si guardava intorno con faccia di disgusto e delusione.
Zu Peppe colse il momento:
– Ma dite, voi assicurate che non muore presto?
– Certo che non muore, ma picchìavissi a moriri? A te serve un mulo?
– A mia servirebbe… ma non ho molti soldi per comprarmi un mulo vivo, forse un mezzo morto…
– E chistumenzumortu è… avanti… quantu mi voi dari? Penzaccibonu… non me lo voglio riportare indietro, qua sono venuto per venderlo e qua lo vendo…
– Che ti posso dare… l’annata non è stata buona, e l’annata chi veni non promette migliorie…
– Avanti, lassamu stari l’annata.. fatti forza, dimmi na cifra…
– Iònunsacciu fari affari, accattari e vinniri non è la mia materia… dimmi tu piuttosto quantu ci voi guadagnari…
– Con onestà, avrei guadagnato qualcosa se quel villano che doveva comprarlo non fosse scappato… con quello che mi è costato mantenerla sta bestia… questa è veramente una mala annata per me…
– Questo mulo non è in grado di affrontare il viaggio di ritorno, se vi muore in mare che fate, lo date in pasto alle murene?
Il cinisaro disse la sua cifra che era già la metà di quella che aveva concordato con il contadino di Scianniria, e zu Peppe la dimezzò ancora e si portò il mulo a casa. Lo curò, insieme alla moglie, fino a guarirlo del tutto, e lo alimentò fino a farne un mulo robusto ed affezionato, almeno con lui, gli altri era sempre meglio che gli stessero alla larga, ed in ogni caso mai davanti e mai dietro. Divennero inseparabili nell’affrontare la vita e lutravagghiu. Il mulo non solo tirava il carretto con forza e mansuetudine, tirava anche l’aratro sui terreni più duri d’argilla, una manciata d’avena dalle mani di zu Peppe era la gratifica migliore che poteva ricevere.
Quando comparvero i primi trattori zu Peppe decise che mai avrebbe cambiato il mulo con il trattore, se devi stare giornate sane solo in mezzo alla terra col mulo ci puoi parlare e farti compagnia, e lui non sarebbe mai stato capace di parlare con un trattore, d’altronde lui non sapeva nemmeno andare in bicicletta ed a stento sapeva aprire lo sportello dell’autobus quando qualche volta era sceso a Trapani.
Partirono il zupeppe, il mulo ed il carretto, per arrivare a Tribli dovevano fare tutta la salita fino allo sperone passando sull’orlo della Bufara. Non aspettandosi pioggia non portò con sé l’incerata per ripararsi dall’acqua, al ritorno il carretto sarebbe stato carico di bidoni d’olio, e non voleva altri impacci. Questa cosa dei bidoni non lo convinceva ed ogni volta che ci pensava aggrottava la fronte, poi con rassegnazione accantonava il pensiero. I bidoni erano di plastica, ce la vedete voi l’acqua santa per le benedizioni trasportata dentro a dei bidoni di plastica? L’olio d’oliva era come l’acqua santa, da tenere al riparo da contaminazioni, e la plastica la riteneva la peggiore delle contaminazioni, demoniaca perché si presentava come utile ed indispensabile, la peggior cosa che potesse capitargli era dipendere dalla plastica, avere la propria vita dipendente dalla plastica. La moglie, che come tutte le donne era aperta alle novità, lo confortava dicendogli che infondo l’olio nella plastica ci stava per il tempo del trasporto dal frantoio a casa, poi lo avrebbero travasato nelle giare e mantenuto al fresco. Ma zu Peppe insisteva invitando la moglie e chiunque ad assaggiare l’olio nel frantoio e poi riassaggiare dallo stesso olio dopo il trasporto nella plastica, avrebbero sentito il tanfo dei bidoni, e questo era segno che la plastica contaminava l’olio. Ma si rassegnava difronte alla soluzione pratica che la plastica rappresentava.
Il passo del mulo era lungo e svelto, non sentiva stanchezza e la strada la mangiava a vista d’occhio, senza dare segni di rallentare; in certi punti della stradella, dove non c’era asfalto, la polvere sollevata dagli zoccoli saliva fino alle narici di zu Peppe seduto sul carretto, e lo faceva starnutire. Per arrivare a Tribli ed al frantoio del paese vicino, dovevano affrontare tutta la salita fino allo Sperone, costeggiare il cratere della Bufara coi suoi deflussi arcaici di zolfo, di sterco di buoi lasciati da sempre liberi al pascolo, di latte disperso nella terra e di siero, di ovile e di erba grassa, di borragine e spicuna e rovi, e finocchietto sempre odoroso, e grassa e amara cardella e camarruna in fiore, e lumache di roccia, crastuna e settannisi. Il ritorno sarebbe stato tutto in discesa, a pieno carico toccava a lui, con una mano, manovrare l’asta di legno collegata alla ruota per frenare ed alleggerire il peso sul mulo.
La discesa poteva essere più pericolosa della salita e poteva sfiancare l’animale, ed a questo serviva il freno sulle due ruote, ma non era semplice. L’ultimo tratto sull’orlo della Bufara era il più ripido, con spuntoni di roccia in mezzo alla stradella, ed era duro in salita e pericoloso in discesa, tanto che ognuno che vi passava, col carretto o a dorso di mulo, lo faceva sempre con timore e con il cuore palpitante. Ed era successo in passato che un carretto carico di mandorle ad agosto aveva trascinato mulo e padrone giù, dentro la voragine della Bufara; e c’era chi nel passare da quel tratto sentiva, con l’eco dei suoi passi e della sua voce, il raglio del mulo morente e le urla disperate del padrone, salire dal fondo della Bufara. Tutti dicevano che solo quando lo spirito di quel morto avesse trovato in chi incorporarsi per allontanarsi da qual luogo, solo allora non si sarebbe più sentita la sua voce. Perché questo si diceva, che le campagne dove erano avvenute morti violente erano piene di spirdi, nella morte violenta lo spirito che lascia il corpo non si allontana dal luogo e non sale in cielo, vaga disperato senza dimora.
Zu Peppe sapeva che attraverso il respiro gli spirdi entravano nei corpi dei vivi e ne prendevano possesso, ne diventavano padroni, e per questo in quel tratto di trazzera ripida e pietrosa manteneva il fiato. Così si difendeva zu Peppe dal soprannaturale che infestava quel tratto di via.
Le poiane, massicce, ad ali spiegate, già roteavano lente e sicure nel cielo alto, mentre sciavule e corvi andavano avanti e indietro dai loro nidi nelle fratture della roccia a strapiombo.
Su un costone di pietra arrugginito ed arrossato come un sole al tramonto si era posato un gabbiano solitario, bianco dal becco e dalle zampe gialle, ed aveva tra gli artigli una preda che poteva essere un coniglio selvatico, che si dimenava e contorceva , nel terrore tentava di respingere quel becco giallo che lo trafiggeva e smembrava e penetrava nella carne; muoveva a scatti violenti le quattro zampe che andavano nel vuoto, finchè smise di muoversi abbandonato dalla vita, sotto lo sguardo indifferente di zu Peppe che nel guardarsi tutta la scena patteggiava per il gabbiano che si era guadagnato il pasto. Il carretto proseguì rumoroso mentre il gabbiano muoveva la testa sulla preda per scrutarne i punti dove affondare il becco e staccare la carne che inchiottiva a scatti. Corvi curiosi che avevano capito si affollarono intorno al gabbiano.
La voragine della Bufara restituiva ogni suono, rumore e voce gli fossero arrivati. Il punto più sincero per l’eco era l’ingresso, un pendio scosceso difronte alle pareti concave di pietra, da quel punto si poteva giocare a pingpong con la propria voce.
L’origine della Bufara non era conosciuta, forse un meteorite caduto dal cielo aveva creato quell’enorme fossa, o una enorme voragine aveva inghiottito la collina. Una cosa era certa, e zu Peppe ne era testimone, che in certe giornate d’inverno, con certi venti, dagli anfratti salivano al cielo colonne di fumo che era meglio non respirare e che inquietavano le bestie.
Quella era una bella giornata, col cielo limpido, ed alla prima luce dell’alba Zu Peppe era arrivato allo sperone e stava per superare il tratto di strada sopra la Bufara. I corvi si vedevano roteare in cielo e le poiane enormi stazionavano basse per decidere dove dirigere le proprie ali, che in genere seguivano i venti, una volpe guardinga spariva tra le pietre.
– E’ finita la nottata per la volpe, si può ritirare…comincia la mia giornata … devo solo portare a casa la mia parte di olio… le mie olive saranno le prime ad essere macinate, e se il tempo mantiene, per mezzogiorno dovrei essere di ritorno…
N.Q.
(continua)