Intervista a Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia
di Giuseppe Salvaggiulo
D’accordo con Roberto Saviano sull’importanza della sentenza per la minaccia camorrista pronunciata nei suoi confronti con un proclama in tribunale nel 2008. In disaccordo sulla condizione della lotta alle mafie, «nella quale lo Stato non ha abbassato la guardia» e anche senza roboanti «proclami» garantisce «un modello all’avanguardia a livello internazionale».
Prima di andare a Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho era capo dell’antimafia a Napoli, quando fu istruito il maxiprocesso Spartacus sul clan dei casalesi nel quale Saviano fu minacciato con la giornalista del Mattino Rosaria Capacchione. Oggi, da procuratore nazionale antimafia, piega che «sicuramente, per modalità finalità e autori, quella minaccia era parte di una strategia che attraverso l’intimidazione mirava a superare il processo». I casalesi, «abbattendo l’informazione, puntavano, secondo modalità tipiche delle organizzazioni mafiose, a rappresentarsi come vittime» di un «processo mediatico», in modo da delegittimarlo. Per questo la sentenza di due giorni fa, svelando il gioco, è importante.
Il procuratore dissente, però, da Saviano nella parte in cui lo scrittore denuncia che «la lotta alle mafie non è una priorità, l’agenda politica la tiene al margine». Cafiero De Raho obietta che «oggi la politica fa meno proclami antimafia ma è presente pubblicamente dove si dibatte di mafia», e a partire dalla legge che introdusse il reato di associazione mafiosa «si è progressivamente consolidato un modello di contrasto che ci pone all’avanguardia nel panorama internazionale, tanto che andiamo in giro nel mondo a insegnarlo». Dal tempestivo adeguamento alla convenzione di Palermo sul riciclaggio alle misure di prevenzione patrimoniale, fino al sistema di segnalazioni di operazioni finanziarie sospette che coinvolge Banca d’Italia, Procura antimafia, Direzione investigativa antimafia, Guardia di finanza, oltre a polizia e prefetture. «Ciò ci consente, in tempo reale e automaticamente, un controllo capillare che dà risultati immediati» e che non va confuso, in quanto silenzioso per modalità operativa e specializzazione, con un «indebolimento o abbassamento della tensione».
Lo dimostra, argomenta, «la tempestività con cui da marzo 2020, all’inizio della pandemia, abbiamo monitorato la costituzione, da parte di mafiosi, di società all’estero per poter aggirare le normative nazionali nell’importazione dei dispositivi di protezione anti virus. Così abbiamo intercettato meccanismi complessi di riciclaggio, prevenendo i problemi come in nessuna altra parte del mondo». Non sono dunque le indagini «il problema nella lotta alla mafia», ma i dibattimenti. «Troppo lenti e appesantiti nelle procedure», il che rappresenta talvolta una vanificazione degli sforzi investigativi, e in ogni caso un ritardo nell’effettività delle condanne.
Accanto alle indagini sulla mafia di oggi, ci sono ancora quelle sulla mafia dei corleonesi dell’inizio degli Anni 90. E precisamente sullo scenario che Cafiero De Raho definisce «il quadro d’insieme, con personaggi esterni alla mafia». Partecipando a Firenze alla cerimonia di commemorazione delle cinque vittime della strage mafiosa di via dei Georgofili, una delle sette (più una fallita) in undici mesi, il procuratore nazionale racconta che le inchieste procedono «incessantemente» in cinque Procure (Firenze, Reggio Calabria, Palermo, Caltanisetta, Catania) e che quella nazionale convoca riunioni di coordinamento al ritmo di una al mese.
«Il metodo è la condivisione delle informazioni, per rendere impossibile un depistaggio come quello del falso pentito Scarantino sulla strage di via D’Amelio». Problema non teorico, tanto che alla voce «tentato depistaggio» iscrive esplicitamente il recente caso di Maurizio Avola, portato alla ribalta dal libro di Michele Santoro. «Un soggetto interessante per alcuni motivi», ma il cui (autoassegnato) ruolo «di colui che caricò l’esplosivo sull’auto è smentito dal fatto che avesse un braccio ingessato e il giorno prima fosse a Catania con un’altra persona. Circostanze da lui taciute, salvo quando gli sono state contestate».
Depistaggi, «false piste che allontanano dalla verità» e dalla comprensione di quelli che Cafiero De Raho considera «fatti incredibili» e mai chiariti. Motivo per cui le indagini, dopo aver acclarato le responsabilità di organizzatori ed esecutori mafiosi delle stragi, si concentrano «sul contesto esterno di persone di cerniera tra mafia, servizi segreti e massoneria». Tra loro emerge, negli ultimi tempi, un «soggetto spurio». Si tratta di Paolo Bellini, che vanta «un impressionante curriculum di criminalità politica, comune e organizzata, nonché un legame con i servizi segreti». Attualmente sotto processo a Bologna per la strage alla stazione del 1980, nel 1992 era in contatto con la mafia siciliana, per la quale «creò il rapporto diretto con appartenenti alle forze dell’ordine, determinando la base della trattativa tra il colonnello del Ros Mario Mori e Vito Ciancimino».
Nuovi elementi sono emersi recentemente dai processi trattativa (appello a Palermo, in fase di requisitoria), ‘ndrangheta stragista (Reggio Calabria) e Borsellino quater (Caltanisetta). La strada per la verità piena non è dunque preclusa dal tempo passato ma, avverte Cafiero De Raho nel giorno in cui i familiari delle vittime invocano rapidi sbocchi processuali (su Marcello Dell’Utri, in primis), va percorsa «senza infingimenti e a piccoli passi per costruire prove in grado di reggere a un vaglio giudiziario, superando un muro». Quale? «L’opacità del ruolo dei servizi segreti, che sono un pilastro della democrazia e della sicurezza nazionale ma dovrebbero aprire gli archivi sul periodo delle stragi, perché così faremmo un passo verso la verità. Forse anche di più di un passo».
fonte La Stampa