Trapani e quel certo clima: qui è tutto a posto

La condanna del senatore D’Ali’: la città ha risposto facendo finta di niente, come sempre

“Ladri e assassini fanno quello che vogliono, e la polizia, con il pretesto di mantenere l’ordine, sta sui campi di calcio.. per guardare la partita! Oppure gioca a fare la guardia del corpo del senatore Ardoli, non è necessaria, basta uno sguardo al suo viso per morire di paura!” E’ un passaggio di uno dei libri usciti dalla penna del “maestro” Andrea Camilleri. E’ “La gita a Tindari”: il commissario Montalbano nell’occasione, cercando di risolvere uno dei suoi gialli, si trova a Trapani e per telefono il fidato ispettore Fazio gli chiede cosa facesse a Trapani non ricevendo però dal suo commissario una risposta precisa, “poi ti dirò”, ma intanto Montalbano gli descrive Trapani con queste poche parole: ”ladri e assassini fanno quello che vogliono”. Non tutto è frutto di fantasia. Per anni a Trapani la lotta al crimine non è mai stata una costante nell’agenda di chi doveva occuparsene, il Palazzo di Giustizia per diverse volte ha subito ispezioni, questori e comandanti dei carabinieri venivano sostituiti nel giro di pochissimi mesi, un dirigente di Squadra Mobile finì anche arrestato, e nel frattempo le mafie crescevano, uccidevano giudici coraggiosi, come Gian Giacomo Ciaccio Montalto, investigatori, come toccò a Ninni Cassarà ammazzato a Palermo dove era stato trasferito dopo avere toccato a Trapani santuari che non dovevano essere toccati, giornalisti, come Mauro Rostagno, mentre altri investigatori e altri pubblici funzionari venivano delegittimati se non uccisi o colpiti, nel 1992 la strategia di attacco allo Stato aveva previsto di ammazzare l’ex dirigente della Squadra Mobile Rino German, tornato a fare il commissario a Mazara del Vallo dopo avere rifiutato di parlare con il ministro Mannino sul quale stava indagando proseguendo una indagine affidata dal procuratore Borsellino. Quando il boss di Caccamo Nino Giuffrè decise di pentirsi parlando di Trapani indicò in questo territorio la presenza per anni dei “cani attaccati”, cioè della tranquillità che la mafia aveva conquistato potendo contare sull’assoluto immobilismo in certi ambienti della giustizia e delle forze dell’ordine. E mentre altri nuovi magistrati e giovani investigatori dalla metà degli anni ’90 in poi hanno colpito l’organizzazione mafiosa arrestando latitanti e distruggendo organigrammi, la mafia è riuscita a trasformarsi, si è fortemente legata alla massoneria, è diventata essa stessa impresa.

A Trapani non ci sono mai stati segni evidenti circa la presenza della mafia dei “viddani”, qui ha regnato, e regna, la mafia borghese, la mafia dei colletti bianchi, qui ha sempre comandato l’area grigia, qui esiste la Cosa nostra 2.0 di Matteo Messina Denaro, che è una Cosa nostra nata all’interno della Mafia siciliana, quasi fosse un’altra “Cosa” di più potente e protetta, quella maggiormente più conosciuta e rispettata: a Trapani si trovano i mafiosi riservati, e quelli “vicini” ai boss.

E’ in questo clima che si svolto dal 2011 ad oggi il processo contro il senatore Antonio D’Ali’. Una figura che, con la condanna di ieri a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è stata adesso ben incastrata nel mosaico mafioso trapanese. Tonino D’Alì, barone e banchiere trapanese, berlusconiano della prima ora, senatore dal 1994 e fino al 2018.

In quelle poche righe de “La gita a Tindari” sembra che il senatore Ardolì del quale scrive Camilleri sia proprio lui, il senatore D’Alì. La principale delle accuse rivolte al senatore D’Alì è quella di avere avuto rapporti stretti con i boss Messina Denaro di Castelvetrano: Francesco prima, il patriarca della mafia belicina, e il figlio di questi, Matteo, dopo, sono stati suoi campieri; tra

D’Alì e i Messina Denaro la vendita fittizia di un terreno, lotto di un ampio possedimento che D’Alì aveva nella contrada Zangara di Castelvetrano, una operazione che per la procura servì a coprire una operazione di riciclaggio per 300 milioni di vecchie lire; nonostante questo “legame” dal 2001 al 2005 il senatore D’Alì ha svolto le funzioni di sottosegretario all’Interno e per la delicatezza dell’incarico ricoperto i suoi movimenti erano scortati dalla Polizia. L’accusa provata, dopo due processi conclusi con sentenza tipicamente andreottiana, “prescrizione e assoluzione”, è di quelle da collocare all’interno degli scenari della “nuova” Cosa nostra, il reato è quello tipico, ossia “concorso esterno in associazione mafiosa”, reato che riguarda quella sfera di personaggi che sono da fare rientrare nella cosiddetta “area grigia” delle “famiglie” della mafia siciliana, quel contesto dove non ci sono “punciuti”, ma soggetti che si prestano o si sono prestati a dare una mano ai boss per potere condurre i propri affari e mantenere il controllo del territorio, non solo controllo tipicamente “militare”, ma anche di natura sociale, economico, imprenditoriale…e politico. Si perché c’entra la politica nel capo di accusa che riguarda l’ex sottosegretario all’Interno il senatore trapanese Antonio D’Alì. Fino al 2011 non aveva avuto contatti diretti con la giustizia, “a sua insaputa” le inchieste contro di lui a Palermo erano finite archiviate, all’ultima richiesta di archiviazione le intuizioni del gip Antonella Consiglio, tratte dalle informative della Squadra Mobile di Trapani, e dai nutriti report della Procura di Trapani, informative con le firme del pm Tarondo e dell’allora vice questore Linares, portarono la Procura antimafia di Palermo ad aprire nuovi fronti investigativi e il risultato fu quello della richiesta di processare il parlamentare.

Il nome di D’Alì da sempre si può dire è legato a quello dei famigerati assassini Messina Denaro, Francesco e Matteo, padre e figlio, il primo morto (da latitante) nel 1998, ucciso dal crepacuore per l’arresto dell’altro figlio, Salvatore, fino ad allora rimasto “insospettabile” e “intoccabile”, all’apparenza irreprensibile preposto di uno sportello bancario a Menfi: Salvatore Messina Denaro guarda caso lavorava alla Banca Sicula la banca della famiglia D’Alì sin dal 1977, banca dove continuò a lavorare anche quando cambiò proprietà, per approdare alla Comit (grazie alla mediazione del principe della banche Enrico Cuccia), e questo sino ai giorni della sua prima condanna definitiva, nel 2001. La Banca Sicula che fu oggetto di indagini da parte di Rino Germanà quando guidava la Squadra Mobile di Trapani, sospetti di grandi riciclaggi di denaro. Matteo Messina Denaro la “primula” della mafia, 50 anni, è latitante invece dal 1993, sparì a giugno, nelle settimane delle famose stragi di quell’anno che colpirono prendendo di mira obiettivi precisi Firenze, Roma e Milano, obiettivi che proprio lui avrebbe scelto all’interno della trattativa che anche in questo modo veniva condotta dalla mafia nei confronti di uno Stato che presto decise di arrendersi. Matteo Messina Denaro era il campiere di D’Ali’ mentre pianificava con Riina le stragi di Capaci e via D’Amelio. I due padrini, don Ciccio e don Matteo, per tanto tempo hanno lavorato in casa D’Alì, facevano i campieri nei terreni che la famiglia di banchieri possedeva a Castelvetrano, città dei boss, in contrada Zangara. Ecco i “guai” per il senatore D’Alì cominciano proprio da questa circostanza, lui si è difeso dicendo che i Messina Denaro se li ritrovò tra i piedi perché già lavoravano per conto di suo nonno su quei terreni, Francesco ovviamente, Matteo da piccolo veniva a giocare in quella tenuta, sedeva alla tavola con i D’Alì, crescendo anche lui finì con il fare il campiere e non solo nei terreni dei D’Alì, ma anche in quelli di altri altolocati trapanesi che in quella zona avevano i loro feudi. Gli ultimi accertamenti fatti dalla Dia di Trapani hanno provato che i rapporti con soggetti mafiosi sono proseguiti e sono stati mantenuti anche dopo l’esplodere delle indagini. Nessun legame sarebbe stato quindi spezzato: durante il processo è saltato fuori il nome di un altro soggetto pregiudicato per mafia ed estorsioni, Vincenzo La Cascia, classe 1948, castelvetranese anche lui, come “campiere” nei terreni di Pietro D’Alì, fratello del senatore.
“Vittima” e non “complice” della mafia ha sempre sostenuto il parlamentare, che però proprio sulla storia di quei terreni di Zangara si porta appresso una vendita fittizia: una parte dei terreni furono ceduti dai D’Alì ai Messina Denaro per 300 milioni di vecchie lire, che però in tre diverse tranche furono restituiti agli ”acquirenti” come ha raccontato il pentito Ciccio Geraci, ex gioielliere di Castelvetrano, braccio destro di don Matteo. Un’operazione che per la Procura di Palermo è servita a nascondere una operazione di riciclaggio.

I pm della Dda di Palermo prima e della Procura Generale dopo lo hanno indicato in rapporti “stretti” con i capi mafia della città, Vincenzo Virga e Francesco Pace, con il “regista” degli appalti pilotati, Tommaso Coppola, che dal carcere cercò in tutti i modi di fare arrivare suoi “messaggi al senatore”, tutti soggetti condannati per mafia e Virga anche per omicidi. Un connubio che per la Procura di Palermo è cresciuto sull’onda della nascita di quel movimento che Leoluca Bagarella voleva portare in Parlamento nel 1994, Sicilia Libera, D’Alì sarebbe stato uno dei soggetti da candidare, poi arrivò l’altolà di Matteo Messina Denaro, bisognava votare Forza Italia e D’Alì fu il candidato berlusconiano dalla prima ora: “pieno è stato il sostegno elettorale di Cosa nostra trapanese” ha riferito l’imprenditore Nino Birrittella, collaboratore di giustizia, “fu Pace ( capo mafia di Trapani ndr) a dirmelo e il figlio di Virga, Francesco, mi indicò che bisognava votare D’Alì”. Connubio che è risultato secondo le indagini della Dda essenziale nell’avvantaggiare imprese di Cosa nostra o vicine alla mafia per la gestione di consorzi turistici, sfruttando pubblici finanziamenti o ancora l’assegnazione di opere pubbliche di ingente valore, come la costruzione della Funivia di Erice, il rammodernamento dei porti di Trapani e Castellammare del Golfo, e ancora per ostacolare il rientro sul mercato dell’impresa di calcestruzzi confiscata al mafioso Virga, la calcestruzzi Ericina, circostanza questa sulla quale si inserisce il sospetto, non più tale secondo la sentenza di ieri, che D’Alì fu il “suggeritore” al Viminale per il trasferimento da Trapani ad Agrigento dell’allora prefetto Fulvio Sodano, che invece tentava in tutti i modi di non far fallire l’impresa confiscata come i mafiosi desideravano avvenisse. Di questa presunta disponibilità di D’Alì con la mafia hanno parlato anche un imprenditore arrestato per associazione mafiosa e che poi ha deciso di collaborare, l’ex patron del Trapani Calcio Nino Birrittella, il pentito di Mazara Enzo Sinacori ha detto che “si sapeva che D’Alì era uno disponibile”, addirittura fino a Villabate si sapeva di questa disponibilità, tant’è che il pentito Francesco Campanella, che doveva risolvere un problema con la sala Bingo, ha riferito che a dirglielo era stato il capo mafia della zona Nicola Mandalà che per risolvere quell’inghippo gli avrebbe indicato proprio D’Alì. Ma è la vicenda del cosiddetto grande evento della Coppa America (gare preliminari) svoltasi nel 2005 a Trapani che vide D’Alì regista di quelle manifestazioni, direttamente chiamato in causa. C’era un grosso appalto da fare, 40 milioni solo per una parte del porto, e secondo Birrittella si sapeva che a vincerlo sarebbe stato un raggruppamento di imprese delle quali faceva parte la trapanese Coling, degli imprenditori Francesco e Vincenzo Morici: “…in occasione della richiesta da parte di quest’ultimo di un preventivo per la fornitura di ferro relativa all’esecuzione dei lavori di appalto per la realizzazione del molo Isolella e della nuova diga foranea informai Morici che anche altre imprese gli avevano chiesto preventivi per lo stesso appalto e questi, in risposta, mi invitò a non rilasciare preventivi a nessun altro affermando testualmente: “per il rapporto che mio padre ha con il senatore D’ALI’ puoi stare certo che l’appalto sarà aggiudicato a noi”. E così accadde.

Un processo durante il quale si è parlato anche della persistenza di D’Alí nell’itere il trasferimento da Trapani del Capo della Squadra Mobile Giuseppe Linares, oggi al vertice della Polizia dove si occupa di sequestri e confische. Scomodo a D’Alì e al suo entourage, scomodo anche per la mafia.
Poi gli ultimi tasselli emersi, anche quelli di una sua partecipazione ad una loggia massonica segreta, come ha riferito il pentito calabrese Marcello Fondacaro. Voci queste che si intrecciano con i poteri forti che coprirebbero l’odierna latitanza, giunta quasi sulla soglia dei 30 anni, del capo mafia Matteo Messina Denaro.

A cavallo tra i due secoli XX e XXI, il senatore D’Ali’ non può dirsi che sia stato estraneo alle dinamiche di Cosa nostra., i giudici ieri hanno accolto la richiesta della Procura Generale, che ha indicato quelle che a suo avviso erano prove più che sufficienti a dimostrare il sostegno di D’Alì nei confronti di Cosa nostra.

Non sono entrati negli atti giudiziari, ma fa parte della storia di D’Ali’ il tentativo, talvolta riuscito, di controllare l’informazione. Rilevò la proprietà di un settimanale locale, poi prese le redini di una tv locale. Per i giornalisti che non si accodavano scattavano le ritorsioni ricorrendo ai rispettivi editori. E comunque vicino a lui sono stati i due più potenti editori dell’isola, Ardizzone e Ciancio, Giornale di Sicilia e La Sicilia. E’ di qualche settimana addietro l’annuncio di una querela per chi scrive: la colpa quello di rendere ai lettori le cronache del processo di appello, quello concluso ieri. E’ un processo col rito abbreviato e quindi secondo la sua tesi, niente era possibile poter scrivere. Ha tentato la via , obbligata, della mediazione civile, ma grazie all’intervento dell’avvocato Giulio Vasaturo abbiamo rifiutato ogni mediazione, in nome della libertà di infromazione, un diritto/dovere sancito dall’articolo 21 della Costituzione.

La condanna di D’Alì si incastra dentro un preciso scenario. E a chiarire certe cose è stata l’ex moglie del politico, Antonietta Aula, sentita come testimone. Il presidente della Corte ha dovuto insistere molto per far parlare la donna, che anni addietro alla giornalista Sandra Amurri, per il Fatto Quotidiano, aveva svelato alcuni segreti. La provincia di Trapani, un territorio dove regna la mafia senza soluzione di continuità e sin dal dopoguerra, ma anche da prima a leggere la relazione nell’800 scritta da un prefetto, Ulloa, al Procuratore del Re, all’epoca del governo borbonico, un territorio mafiosissimo, da sempre e controllato dalla massoneria che ha reso tutto impenetrabile. Qui le cose si vengono a sapere, quando si devono venire a sapere, con circa mezzo secolo di ritardo. Un esempio sono le tremila pagine di motivazione della sentenza sulla uccisione del giornalista e sociologo Mauro Rostagno. A 33 anni di distanza da quel delitto, adesso si può dire, per la sentenza definitiva di condanna del boss Vincenzo Virga, che a dare l’ordine di uccidere Rostagno, “pericoloso ficcanaso” per i mafiosi fu, proprio don Ciccio Messina Denaro, il campiere di casa D’Alì, e che quel segreto venne coperto per un ventennio abbondante, da carabinieri, servizi segreti e magistrati che si adoperarono molto per depistare le indagini. Il tutto, raccontano quegli atti processuali, e la stessa cosa certamente si leggerà nella sentenza con le motivazioni della condanna di D’Alì, avvenne in un contesto politico inquietante. Dove si annidava, e si annida ancora oggi, l’humus delle trattative!

La condanna di D’Alì non ha raccolto pubbliche esternazioni, la Trapani di sempre al solito tace, perché qui alla fine, come recita un antico detto, “un si rice nenti”!

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.