Caso Capaci: il Tribunale militare infligge 5 mesi all’ex comandante della stazione, assolto per la maggior parte delle accuse. Forza Italia fa autogol: attacca Morra, il presidente dell’Antimafia che ha portato la vicenda in Parlamento, e scopre il caso Montante
A conclusione di un dibattimento per diffamazione che per mole di testi e perizie e per durata ha battuto i record di processi ben più importanti, come reati contestati, viene proprio da dire che la montagna ha partorito il topolino. Il luogotenente dei Carabinieri Paolo Conigliaro, ex comandante della stazione di Capaci, è stato condannato dal Tribunale Militare di Napoli a 5 mesi e cinque giorni per diffamazione, ma lo ha assolto da quattro dei sei capi di imputazione con la formula del fatto che non costituisce reato. Una condanna pronunciata mercoledì scorso dal collegio presieduto dal giudice Palazzi, ben più noto per essere stato procuratore della Federcalcio, compito giudiziario al quale si appresta a ritornare, legò il suo nome alle indagini su calciopoli e sull’ex manager della Juventus Luciano Moggi, e che è stata inflitta solo per la circostanza della contestazione dell’aggravante tramite messaggistica pubblica. Le frasi diffamatorie per le quali si sono costituiti parte civile nel processo due marescialli dell’Arma, Salvatore Luna e Andrea Misuraca, tra di loro cognati e per un periodo insieme consiglieri comunali a Capaci, Conigliaro le scrisse su una chat di whatsapp alla quale appartenevano in totale appena sei persone, ben lungi dal potere essere definita una chat pubblica al pari dei social. Senza la contestazione dell’aggravante i giudici militari giammai avrebbero potuto pronunciare la condanna. A febbraio verranno depositate le motivazioni e quindi si comprenderà meglio la ragione della decisione del Tribunale. Il Tribunale però non ha riconosciuto ai querelanti costituitisi parte offese, Luna e Misuraca, alcuna provvisionale circa un eventuale risarcimento. Rinviando la decisione ai giudici civili. Anche questa una decisione che al pari delle quattro assoluzioni pronunciate fa dedurre che le parti offese tanto da offendersi non avevano forse così tanto. La condanna a Conigliaro è stata inflitta per avere postato nella chat la foto di Stan Laurel e per i giudici era un riferimento, diffamatorio, ad un alto ufficiale dell’Arma parecchio somigliante all’indimenticabile attore americano. Ma oggi su questa vicenda dobbiamo riconoscere l’enormità di certi comportamenti. Conigliaro è stato condannato per diffamazione, reato per il quale è stato rimosso, prima ancora del rinvio a giudizio, dal comando della stazione, ha subito una volgare perquisizione anche personale, costretto a spogliarsi nudo dopo la convocazione negli uffici del comando provinciale, ufficialmente solo per la notifica dell’informazione di garanzia, per un paio di giorni spossessato dell’arma, e poi tutta una serie di sequestri di telefonini, tutto però poi prontamente restituito. Un indagato per reati più gravi in ambiente militari non risulta avere mai subito analoghi trattamenti. I suoi superiori volevano addirittura portarlo a lavorare in qualche ufficio dimenticato , ma poi arrivò la Dia che da Roma decise di chiedere la sua assegnazione al comando di Palermo, riconoscendo quelle grandi capacità investigative che a Conigliaro fino a quel momento erano state riconosciute lavorando dal Veneto alla Sicilia, passando anche per la Calabria. Un processo che ha messo in evidenza certune anomalie investigative, come per esempio quelle contenute nei dvd dove la pubblica accusa ha raccolto i contenuti della chat di whatsapp incriminata e che però già nella perizia disposta dal Tribunale e nelle consulenze di parte sono risultate “artefatte” per non dire truccate. Conigliaro a tutti i costi doveva finire imputato, ma il teorema messo in campo si deve riconoscere essere quasi del tutto franato. La frana completa per la verità c’era già stata nella sede del Tribunale ordinario di Palermo: la Procura infatti aveva chiesto e ottenuto dal gip l’archiviazione delle querele presentate in quella sede da Luna e Misuraca, le stesse querele proposte anche al Tribunale militare. Circostanza evidenziata dal difensore di Conigliaro. “Al di là del merito – commenta infatti l’avv. Giustino Ferraro – oggi si verifica un pericoloso precedente giuridico in cui due autorità mettono nero su bianco due provvedimenti giudiziari opposti riferiti allo stesso fatto. Il “ne bis in idem” avrebbe evitato proprio questo e cioè che ci siano provvedimenti giudiziari in disaccordo tra loro e, a monte, che ci siano due procedimenti per lo stesso fatto. Un gip di Palermo dice che dire una determinata frase, in un contesto specifico non è reato, e un altro giudice, quello militare, dice che lo è. L’anomalia tecnico giuridica esiste e forse va spiegato anche con altro che c è dietro la vicenda. Nel merito, il giudice militare ha ritenuto che alcune frasi fossero diffamatorie intendendo l’imputato meritevole delle attenuanti generiche e condannandolo a 5 mesi e 5 giorni. L’aggravante contestata dell uso di un mezzo di pubblicità (gruppo chiuso di whatatapp con 6 partecipanti ndr) si ritiene altamente opinabile e per questo sarà importante leggere le motivazioni”. Il 23 febbraio è stato fissato il termine per le motivazioni della sentenza e poi la palla passerà al giudice di appello, visto che il difensore ci fa sapere che intende ricorrervi. E’ l’affermazione “c’è altro dietro la vicenda” non ci sorprende. Lo abbiamo già più volte scritto e gli elementi da noi raccolti sono stati oggetto anche di una nostra audizione in commissione nazionale antimafia. Un interesse quello della commissione nazionale antimafia, che portò la vicenda in Parlamento convocando come principale audito l’ex comandante della stazione dell’Arma di Capaci, che non è piaciuto ai querelanti e alla parte politica di Forza Italia che ieri, facendo autogol, ha deciso di commentare la condanna di Conigliaro con una dichiarazione del senatore Luigi Vitali che ci pare essere andata oltre il consentito per avere preso di mira il presidente dell’organo bicamerale, il senatore Nicola Morra, che si ritrova “colpevole” in un processo sommario, quello che per altri casi proprio Forza Italia ha spesso contestato. Conigliaro si è ritrovato rimosso dal comando mentre indagava sugli strani interessi che a Capaci giravano attorno alla realizzazione di un centro commerciale in un’area una volta occupata da uno stabilimento industriale, mentre scopriva infiltrazioni mafiose nel Comune che invece di essere sciolto potè giungere al rinnovo degli organi istituzionali alla scadenza naturale. Ultimo atto di quel Consiglio comunale, che era stato proposto per la procedura di accesso da parte del luogotenente Conigliaro, fu proprio quello di approvare la variazione della destinazione urbanistica di quell’area, da industriale a commerciale, e intanto la proposta di scioglimento restava chiusa nei cassetti dell’ufficio del comandante provinciale dell’epoca dei Carabinieri di Palermo. Mai arrivata in prefettura a Palermo. E quando la circostanza venne scoperta dall’allora prefetto De Miro, oggi consigliere di stato, pare non sollevò il dovuto scalpore. Quel centro commerciale, per la cui realizzazione ancora oggi non è stata mai scritta la parola revoca, Conigliaro nero su bianco aveva scritto che doveva trattarsi di uno dei tanti centri commerciali che rientravano tra gli interessi, grazie ai suoi tirapiedi, del ben noto Antonello Montante, il leader di Confindustria che gestiva i suoi affari illeciti coprendoli con la faccia dell’antimafia. Solo adesso Forza Italia con il senatore Vitali parla di “caso Montante” a proposito della condanna di Conigliaro, circostanza e collegamenti mai prima sollevati. Vitali ha definito, in una dichiarazione rilanciata ieri dall’agenzia Ansa, il luogotenente Conigiaro quale “cocco” del presidente Morra, perché questi decise di aprire un caso in commissione. Una caduta di stile che però svela più nervosismo che soddisfazione. La condanna del luogotenente Paolo Conigliaro, questa la nostra impressione, e certe parole sguaiate ci portano a ritenere che al di là della decisione non ancora definitiva, il caso è tutt’altro che chiuso come qualcuno vuol far ritenere.