Caporalato: operazione “Schiavi del Pulito”, revocati domiciliari a Monica Torregrossa. Libera anche la mediatrice culturale
Sebbene su di lei si erano concentrati pesanti indizi di complicità per le extracomunitarie ridotte a lavorare in schiavitù, in alcuni alberghi tra Palermo e Castelvetrano, questo quanto emerso dall’indagine della Polizia a Palermo, Monica Torregrossa, 45 anni, difesa dall’avvocato Vincenzo Pillitteri, è stata rimessa in libertà dal gip del Tribunale di Palermo, Annalisa Tesoriere, che ha revocato gli arresti domiciliari.
La Torregrossa, moglie di un maresciallo dei carabinieri, con Luca Fortunato Cardella, altro indagato del blitz di qualche settimana addietro, presidente della società che gestiva le assunzioni delle migranti, era finita al centro dell’inchiesta coordinata dalla Procura di Palermo e condotta dalla Squadra Mobile palermitana, a proposito dello sfruttamento delle lavoratrici prelevate dai centri dove si accolgono i migranti in attesa di riconoscimento di asilo politico. Lei, la Torregrossa, era così importante per quelle lavoratrici tanto da essere soprannominata Big Mama, lei era responsabile a Roccamena del centro di accoglienza “Casa di Francesco”. Durante l’interrogatorio di garanzia, Monica Torregrossa ha respinto le accuse. La conoscenza con Cardella, ha spiegato al giudice, le era stata agevolata dalla responsabile di un altro centro di accoglienza, Cardella con lei si era sempre presentato “in maniera positiva”. Da parte sua nessuna copertura sui ritardi con i quali Cardella corrispondeva i compensi, “semmai mi adoperavo per tranquillizzare le ragazze, ribadendo l’importanza comunque di mantenere il contratto di lavoro per non pregiudicare l’ottenimento della protezione internazionale…in una occasione -ha detto al gip – anticipai io i 200 euro che una di loro attendeva”.
Durante la fase preliminare dell’indagine i pm avevano raccolto confessioni di altro tenore: ” Monica mi riferiva di aver saputo da Luca (Cardella ndr) che siccome le ragazze di Roccamena erano tante, non poteva più pagare il biglietto di viaggio che avremmo dovuto pagare noi, prendendo i soldi dalla paga mensile ed io allora dicevo a Monica che non sarei potuta andare. Allora Monica aveva una brutta reazione. Mi diceva che neanche lei era stata pagata per il suo lavoro, che io volevo soltanto mangiare e dormire, che i soldi per mangiare e dormire li metteva lei e che se io non fossi andata a lavorare avrebbe scritto cose brutte su di me alla commissione di Trapani, che non mi avrebbe dato la protezione internazionale; così mi avrebbe cacciata dal centro. Io le dicevo che Luca in quei due mesi non mi aveva ancora pagato e Monica mi diceva che non le interessava, che io avrei dovuto continuare a lavorare e che Luca prima o poi mi avrebbe pagato”. “Mai nessuna minaccia alle ragazze” ha ribattuto dinanzi al gip la Torregrossa. Ha escluso che lei sia stata violenta, ma semmai subì lei una violenza quando nel settembre 2019 fu chiusa da delle ragazze dentro uno sgabuzzino. Le dichiarazioni della Torregrossa hanno indotto il giudice Tesoriere a riconsiderare la consistenza grave degli indizi a carico della donna e che erano state evidenziate nell’ordinanza di applicazione della misura cautelare.
L’orientamento della Procura sul ruolo della Torregrossa era stato ben altro: “pur essendo pienamente consapevole dello stato di bisogno delle ragazze ospiti del centro di accoglienza, e dell’approfittamento delle loro condizioni da parte dei vari datori di lavoro, non esitava ad attivarsi per reclutare forza lavoro, per dirimere eventuali problematiche insorte in caso di lamentele delle ragazze sfruttate, per predisporre appositi propri servizi di accompagnamento presso i posti di lavoro, nonché di favorire l’utilizzo fraudolento di strumenti d’inserimento nel mondo del lavoro, in modo da consentire un risparmio di spesa per i gestori delle aziende consorziate”. Prima della Torregrossa, a lasciare i domiciliari era stata Lamia Tebourbi, mediatrice culturale, difesa dall’avvocato Giorgio Bisagna. L’indagine della Squadra Mobile di Palermo ha fatto scoprire come decine di lavoratrici, per buona parte nigeriane, stavano in servizio dalle 10 alle 12 ore consecutive, per una paga, quando retribuita, pari a 400 euro mensili. La Procura ha ipotizzato per gli indagati i reati di associazione per delinquere finalizzata all’intermediazione illecita ed allo sfruttamento lavorativo, nonché truffa ed estorsione, con l’aggravante di aver commesso il fatto ai danni dello Stato e con l’abuso di relazioni di prestazioni d’opera. Il tutto avveniva attraverso società operanti nel settore dei servizi di pulizia, riconducibili ad un’unica struttura consortile denominata “Diadema“, le lavoratrici immigrate sarebbero state individuate all’interno di Centri di Accoglienza e destinate a svolgere mansioni di governanti ed addette alle pulizie presso alcuni esercizi ricettivi di Palermo e di Castelvetrano. Sui contratti di lavoro gli orari di lavoro dichiarati erano nettamente inferiori a quelli effettivamente svolti. Le lavoratrici provenivano dai centri di accoglienza “Casa di Francesco” di Roccamena, “Donne Nuove” di Palermo e “opera Pia Riccobono” di San Giuseppe Jato.