I complici di “Ignazieddu”

Operazione “Hesperia”: la caccia al latitante Messina Denaro e la carrier mafiosa del campobellese Francesco Luppino

L’ultimo suo nome in codice è quello di “Ignazieddu”. Il più recente degli “alias” del super latitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, 60 anni, trenta dei quali trascorsi da super ricercato. Erede naturale del padre, don Ciccio, morto di crepacuore nel novembre del 1998, “il padrino con il bisturi” veniva chiamato per la sua capacità di incidere il territorio dalla sua Castelvetrano, la “capitale” della Valle del Belice. Matteo Messina Denaro, ha però anche raccolto il bastone del comando da Totò Riina e Bernardo Provenzano, oggi rappresenta il punto di passaggio dalla mafia arcaica a quella cosiddetta 2.0, che ha scoperto nuovi affari al fianco dei vecchi, come il racket, il traffico di droga, anche la gestione pilotata delle aste giudiziarie, per controllare, come Cosa nostra sa fare, il territorio, l’acquisto di immobili, alberghi, terreni. Matteo Messina Denaro, al quale le forze dell’ordine danno la caccia dal giugno del 1993, è custode di segreti, non ultimo il famoso archivio portato via dall’ultimo nascondiglio di Riina, dalla casa di Palermo in via Bernini, ma anche nelle sue mani i rapporti tra Cosa nostra, la massoneria, lui incontrava senza problemi il notaio Pietro Ferraro, coinvolto nel famoso tentativo di avvicinamento subito da un giudice palermitano, Salvatore Scaduti, durate il processo per l’omicidio del capitano dei carabinieri, Emanuele Basile, e la politica, per essere anche stato con il padre campiere nei vigneti del banchiere prima e senatore dopo, Tonino D’Alì, l’ex sottosegretario all’interno trapanese sul quale pende una condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

La Cassazione deciderà su di lui il prossimo mese. “Ignazieddu” è dunque Matteo Messina Denaro, denominato “u siccu”, “olio”, “diabolik”, “la testa dell’acqua”. “Ignazieddu” lo chiamava il suo luogotenente, il campobellese Francesco Luppino, “lo zio Franco”, o “Gianvito”, per i suoi sodali mafiosi. Luppino è tra i 35 arrestati del blitz antimafia della scorsa notte condotto dai Carabinieri in mezza Sicilia e nominato “Hesperia”. Manette e perquisizioni coordinate dalla Procura antimafia di Palermo e che hanno visto per questo in campo oltre 400 carabinieri. Franco Luppino moltissimi anni addietro fu arrestato per omicidio, ma grazie ad una legge svuota carceri negli anni ’90 tornò libero, il delitto era di mafia, ma non fu contestata l’aggravante, tornò libero nella sua Campobello di Mazara e ad ogni processione puntualmente il corteo si fermava davanti casa sua. Quando fu arrestato nei primi anni del 2000 aveva riorganizzato la famiglia mafiosa del suo paese, adesso è tornato in carcere con la stessa accusa di riorganizzare quella che lui chiamava “la squadra”, ma stavolta l’imputazione è più pesante, lui è il capo mafioso della provincia, su delega del latitante. “Per adesso il perno di tutto è lui” , così di Luppino sono stati sentiti parlare due mazaresi, uno dei quali imparentato con la famiglia di un importante mafioso oramai deceduto, Mariano Agate. Uno “potente” lo “zio Franco”, “il numero uno della provincia di Trapani”, commentavano un paio di mafiosi palermitani, tanto da riuscire a far smontare, ai tecnici che le avevano collocate, un paio di video camere di sorveglianza che prima ancora di quest’ultima operazione, la Procura antimafia di Palermo, aveva fatto sistemare per sorvegliare visite e spostamenti del boss. Le intercettazioni di “Hesperia” hanno fatto ascoltare alcuni indagati a parlare del latitante come se fosse morto, parole fuori posto che avrebbero potuto far rschiare la pelle a chi le aveva messe in giro, ma Luppino lesto prende la palla al balzo, “facciamola girare così forse allentano le ricerche”. Che si tratta di una bugia la conferma agli investigatori arriverà in pochi giorni, quando uno dei mafiosi di Campobello di Mazara parla a Luppino chiedendogli di scrivere “a quello che manca”. Poche parole ancora e l’identificazione è certa, parlano di Matteo Messina Denaro. Novembre 2020, a parlare altri due indagati, dicono di “Ignazieddu” e aggiungono, “il fratello era quello che lavorava in banca”, per l’appunto Salvatore Messina Denaro, preposto, fino al giorno del suo primo arresto nel 1998, di una succursale della Banca Sicula della famiglia D’Alì,  incorporata poi dalla Banca Commerciale. Ma le mani di Luppino, oltre che posarsi sui nuovi sodali promossi a “padrini”, come successo per la famiglia mafiosa di Petrosino, centro agricolo del marsalese, si sarebbero posate anche sulle aste giudiziarie, una rete per controllare acquisiti di immobili, terreni, alberghi in pregiate località turistiche come Tre Fontane, Mazara, Selinunte ed Erice. Tutte operazioni possibili grazie ad una rete di complicità, ma soprattutto “con il benestare di Castelvetrano” e per averlo gli intercettati dicevano di dover parlare con “lo zio Franco”. E sulla via illecita del controllo delle aste, dalle indagini condotte dal Ros dei Carabinieri è venuto un altro nome importante ammesso alla “tavola” mafiosa di Messina Denaro,. Quello di Giuseppe Fontana, detto Rocky, condannato per traffici di droga, armiere della cosca, fidato amico del latitante, libero da ogni pendenza giudiziaria dal 2013. Nel suo locale, un bar, sono avvenuti alcuni incontri quando c’era da aggiudicarsi all’asta un albergo di Selinunte, un vero affare, valore 5 milioni all’asta peer 700 mila euro. Ma il controllo delle aste veniva sfruttato anche per ricattare i concorrenti, per togliersi di mezzo il prestanome mafioso, qualcuno ha anche pagato, e quei soldi “lo zio Franco” li destinava al mantenimento dei mafiosi detenuti in carcere. Tra gli “affari” sotto controllo il ricco mercato oleario di Campobello di Mazara. A fare il prezzo sempre lui, a chi gli obiettava che il prezzo non era rispondente alle offerta sul mercato, lui minaccioso rispondeva “qui marcato non ce ne è”. Ciò che svela l’operazione antimafia della scorsa notte è il fatto che Cosa nostra è tutt’altro che allo sbando e che in questi anni ha avuto la capacità di risorgere come “l’araba fenice”, sempre agli ordini del latitante, con capi mafia collaudati come Franco Luppino e anche nuovi sodali. E poi sullo scenario la solita area grigia, per pilotare le aste giudiziarie c’è bisogno di professionisti, quelli che per adesso sono rimasti nell’ombra. E non sarebbe da escludere che i favoreggiatori più vicini al boss siano personaggi incensurati in giacca e cravatta.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.