I racconti di Nicola Quagliata.
Racconto breve ma non troppo
PADRE INCAGLIA, DON GIOVANNI INCAGLIA
Michele Colasanti non aveva dubbi su don Filippo, che tutti in paese, compresi i parrini che la domenica dicevano la messa e davano l’estrema unzione ai morti, consideravano un domineddio, e che era pure noto per le opere di bene verso le parrocchie. Don Filippo era figlio di Don Vincenzo, il peccatore santo.
Padre Incaglia, don Giovanni Incaglia, della parrocchia dell’Assunta, aveva chiamato don Vincenzo il “peccatore santo” distinguendolo dal personaggio biblico di Davide che era stato un “santo peccatore”.
Padre Incaglia aveva operato la distinzione tra santi peccatori e peccatori santi in una sua omelia, in cui dopo avere dottamente illustrato la distinzione, aveva affermato con tono dialogante e con enfasi, che l’Italia, ed in modo particolare la Sicilia, sono terre, si di santi, ma soprattutto, grazie alla chiesa, di peccatori santi, e nella sua omelia presentò Davide, il prescelto, come il santo peccatore.
Quel Davide della Bibbia che fece ritorno dalla strage Amalek rimanendo a Ziglà e che al terzo giorno ebbe la notizia della morte di Saul, l’unto del Signore, sul monte Gelboe, portatagli da un Amalecita, lo stesso che lo aveva ucciso su esplicita richiesta di Saul che più non sopportava le angosce che aveva nel petto; Davide, chiamati due suoi giovani fece uccidere lo stesso amalecita.
“Davide era stato scelto da Dio in giovanissima età e per tutta la vita era stato un combattente della sua fede senza mai aver mai dato motivi, al suo Signore, per farlo ricredere.Ed ecco che un giorno Davide, come se un fato avesse voluto fargli sfidare la magnanimità di Dio, viene indotto in tentazione ed al peccato, dopo una vita di santità. Secondo l’antico racconto Davide nel passeggiare sulla sua terrazza vide dall’alto una donna che si lavava, restando colpito delle sue fattezze, della sua bellezza. Informatosi sulla donna seppe che si trattava di Betsabea, la moglie di Uria l’Hittita, un suo fedelissimo guerriero. Davide volle che gliela portassero, ed ella dormì con lui e dopo un po’ la donna gli fece sapere di avere concepito.
Davide trovò in Uria, marito di Betsabea, un ostacolo alla piena realizzazione della sua relazione con Betsabea, ed allora scrisse una lettera al suo generale d’esercito Gioab che si trovava in combattimento
tenendo in assedio una città, e mandò quella lettera per mano di Uria, il marito di Betsabea. Queste le parole riportate dalla bibbia: “…Davide scrisse una lettera a Gioab e la mandò per mano di Uria.
Nella lettera aveva scritto così: “Ponete Uria sul fronte della battaglia più dura, poi ritiratevi da lui, perché sia colpito e muoia”.
… Gioab pose Uria nel luogo dove sapeva che vi erano nemici tra i più valorosi.
Gli uomini della città sotto l’assedio di Gioab fecero una irruzione e attaccarono Gioab, ci furono caduti tra il popolo, tra i servi di Davide e morì anche Uria l’Hittita….”
Uria era lo sposo di Betsabea, la donna che Davide aveva osservato dalla penombra della sua terrazza, apprezzandone le forme e la femminilità, ed a tal punto ne aveva apprezzato la bellezza che, chiamati i servi, la fece portare nelle sue stanze, dormirono nello stesso letto e lei concepì. Alla morte del marito Uria, Davide la prese in moglie. Dice ancora testualmente l’antico racconto: “ma questa azione compiuta da Davide fu cattiva agli occhi del signore” ed agli occhi del Signore aveva peccato dopo una vita in santità, da ciò padre don Incoglia lo ritiene santo-peccatore.
Davide dunquefu un santo peccatore.
Nella omelia della domenica successiva padre Incaglia affrontò il tema del “peccatore santo”, e tutti comprendevano a chi era rivolto quell’appellativo, a don Filippo, che aveva sbagliato nella vita ma che era anche un benefattore, un protettore del paese e della terra ritenuta patria dei santi insieme ai paesi vicini, un figlio di quella terra santa.
Don Filippo era figlio di don Vincenzo, nato alla fine dell’800, figlio di grande proprietario terriere, i cui latifondi penetravano nel cuore della Sicilia; terre incolte, ma intoccabili da chiunque, sorvegliate come il più prezioso dei beni, queste terre abbandonate incarnavano l’idea stessa di proprietà, della sua proprietà.
Se qualcuno saltava i recinti dei suoi orti e portava via le pere migliori e le migliori mele, o gli agnelli o le pecore, e nella sua stalla i suoi buoi, frutto di lavoro umano, si trattava di beni materiali reintegrabili, che in genere recuperava con la flagellazione dei disonorati che avevano commesso il furto, ma la violazione dei suoi feudi, terre abbandonate ai diluvi delle piogge, alle piene delle fiumare, agli incendi dello scirocco, violazioni con con pascolo abusivo, anche nelle zone più selvagge ed abbandonate, di nessun valore materiale, o sottrazione della selvaggina anche di un coniglio o una tortora, erano delle violazioni alla idea di proprietà privata, della sua proprietà privata, e questo era per lui intollerabile, e richiedeva la pena di morte che faceva eseguire dagli uomini suoi più fidati, uomini con famiglia e figli. Don Vincenzo non si fidava dei picciotti senza una loro famiglia e senza figli. Don Vincenzo considerava le famiglie dei suoi uomini come degli ostaggi. Un padre di famiglia doveva pensarci bene a mettersi contro don Vincenzo, ci andava sempre di mezzo la sua famiglia, i suoi figli e la moglie, e che uomo era quello che non metteva al primo posto nella sua vita la sicurezza e l’integrità della sua famiglia? Uno dei principali motivi per cui il paese prendeva le distanze da chi sfidava don Vincenzo, non rispettando la sua proprietà o il suo stesso nome denigrandolo, o non parlandone bene, era che non aveva attaccamento alla sua famiglia, non proteggeva e teneva in sicurezza i suoi figli.
Cortei di auto blu lo raggiungevano come se da lui si fossero dati convegno, certe volte anche scortati dalla polizia, e si facevano nomi di ministri e segretari di stato, personaggi famosi della politica nazionale.
Un politico locale, di stampo comunista, era arrivato ad affermare che don Filippo aveva partecipato alla riunione che si era tenuta nelle campagne del paese vicino, in uno dei bagli della mafia del posto, con la partecipazione di cosa nostra americana, in cui era stata decisa l’uccisione di John Kennedy.
Colasanti, che si riteneva un prescelto da don Filippo, già al suo servizio, ed un privilegiato tra i tanti in paese che neppure arrivavano a sperare, come egli stesso il giorno prima, che la loro esistenza fosse considerata dal reggente;
si considerava un prescelto, perché in tanti in paese avrebbero lavorato per don Filippo.
Tornato a casa Michele Colasanti rimase in attesa, finché dopo qualche giorno non fu chiamato in municipio.
Il mattino di venerdì Michele Colasanti fu davanti al comune, ed alle nove in punto ne varcò la soglia. Si trovò davanti l’usciere, che lui conosceva, uno del suo quartiere, che con quel posto aveva sistemato se stesso e la famiglia, ma che dal giorno in cui era stato assunto non gli aveva più rivolto la parola e gli aveva tolto il saluto ignorandolo se lo incontrava. Ora lo salutava, gli dava la mano e gli sorrideva, e andandogli incontro le braccia larghe ed il sorriso gli diceva: vieni Michele, sapevo che dovevi venire, vieni che l’assessore ti aspetta, al primo piano, la terza porta a destra sul corridoio, vai tranquillo Michele. Sorpreso dalla cordialità di Benedetto gli diede la mano, che quello gli strinse calorosamente aumentando il suo stupore. Si diresse verso la scalinata con gradini ampi e bassi, di pietra bianca finemente sbozzata, levigata da anni di saliscendi di
impiegati e cittadini diretti negli uffici di primo e secondo piano.
Michele Colasanti salì le scale e fu davanti la porta dell’assessore, bussò ed una voce di dentro, cordiale, lo invitò ad entrare. Mentre apriva la porta per entrare l’assessore, in giacca e cravatta sulla camicia bianca, gli andò incontro nella stanza, allungandogli la mano nel saluto ed invitandolo ad accomodarsi sulla sedia davanti alla sua scrivania. Michele Colasanti ora era davvero impacciato, confuso, non sapeva che dire.
Parlò l’assessore, che intanto si era seduto al suo posto dietro la scrivania, aggiustandosi la cravatta:
· Michele non dire niente, non devi dire niente. Ti abbiamo convocato perché il Comune ha preso a cuore il tuo caso, la tua situazione, e vuole aiutarti. Adesso indiciamo un concorso per l’assunzione di tre impiegati al Comune, e vogliamo che tu vi partecipi, e ti dico già da ora che tu sarai uno dei tre vincitori di concorso, e sarai assunto al comune. Stai per diventare impiegato comunale, la Giunta ha già deliberato, e c’è l’accordo di tutti per la tua assunzione, perché tu sarai uno dei tre vincitori di concorso, … come sai don Filippo ti ha preso a ben volere…
Mentre l’assessore gli comunicava la notizia della sua assunzione si sentì bussare alla porta. In giacca bianca, coi capelli ben pettinati con la riga a sinistra e con le lenti sotto la fronte, con bottoni dorati alle maniche e un cravattino nero a farfalla, con un vassoio in mano, con sopra delle tazzine di caffè coperte da carta stagnola, c’era il cameriere del bar di fianco al portone di ingresso del comune, con sede sotto la finestra dell’assessore. Era seguito da altri due impiegati in giacca scura e cravatta, con baffetti e sigaretta accesa tra le dita delle mani; cerimoniosi salutarono Michele e si affrettarono intorno al vassoio, levandolo dalle mani del cameriere del bar e poggiandolo in un angolo libero da carte e timbri della scrivania, e si diedero da fare con le tazzine e lo zucchero.
· Prendiamoci questo caffè Michele, paga il comune, disse l’assessore.
Alle parole dell’assessore i due impiegati sorrisero maliziosamente, dandosi una occhiata di intesa, soddisfatti dei caffè che gli venivano offerti dal Comune e quindi dai loro concittadini.
E così Michele Colasanti si trovò ad essere impiegato comunale ed a trascorrere la sua vita in silenzio, da impiegato comunale, con un cambiamento di vita che neppure sarebbe mai riuscito ad immaginare. Michele Colasanti era ora impiegato comunale al servizio di don Filippo, ed aveva capito che pure Tumminia era assessore del comune al servizio di don Filippo, e l’uscere e gli altri impiegati, avevano tutti il privilegio di essere al servizio di don Filippo, il Comune era al servizio di don Filippo era una cosa sua.
La morte di Saro Spicuni venne archiviata da giornali e procura come omicidio d’onore. I carabinieri nel loro archivio scrissero ed archiviarono l’omicidio come omicidio per interessi e la loro versione andò ad arricchire i faldoni dei verbali per omicidio rimasti omicidi per mano di ignoti.