Quel 1992, l’anno delle stragi, delle morti eccellenti, a scorrerlo per bene si scopre quanto sia stato insanguinato, segnato dalla cruda violenza mafiosa che non si ferma davanti a nulla. Basta un sospetto per ammazzare. Basta poi poco per “mascariare”. Allo Stato occorre sempre molti anni invece per riuscire a condannare. E’ anche questa la storia di questo Paese che per quanto moderno e occidentale in certe sue parti somiglia ancora oggi ad un Paese sudamericano. E le riforme annunciate e quelle attuate per la Giustizia, spingono verso questa direzione. Era il 28 settembbre 1992, siamo a Castellammare del Golfo: una coppia, un uomo e una donna, marito e moglie, si appresta a tornare nella loro casa di Guidaloca, una zona di villeggiatura vicino Scopello, a pochi chilometri dalla riserva dello Zingaro, quel costone di roccia che la mafia voleva cementificare. A Guidaloca ci sono diversi residence, uno di questi con i risparmi di una vita passata in mare, lo ha costruito Paolo Ficalora, capitano di lungo corso, è in pensione e si dedica a quelle case e alle sue proprietà. La moglie è invece direttrice scolastica, Vita D’Angelo, ha sempre assecondato il marito, anche nelle scelte “imprenditoriali”, le è stata sempre accanto, vicino, lui ha sempre condiviso con lei ogni cosa, difficile perciò che lei non sappia qualcosa del marito. Quell’uomo per lei ha ammirazione, amore, non ha segreti.
E’ quasi mezzanotte quando marito e moglie arrivano all’ingresso del loro residence, “il villaggio del capitano” viene chiamato e da tutti pubblicamente riconosciuto, lui, il capitano Ficalora, guida una Peugeot, tornano a casa dopo una serata trascorsa a cena, invitati dal loro commercialista: “Ecco, siamo di nuovo al ranch, sei contenta?”, chiede Paolo Ficalora alla moglie che gli risponde con un sorriso, è lei che scende dall’auto per aprire il cancello e fare passare la vettura guidata dal marito, mentre la donna rivolge le spalle all’auto sente un improvviso susseguirsi di colpi, sordi, ma violenti, colpi di arma da fuoco, si gira e vede duo uomini vicino all’auto, fermi dal lato guida puntano armi contro il marito, lei si avvicina, urla, ma a lei non fanno nulla, nel buio difficile che possa vedere quei volti, vede il marito con il volto stravolto , vede mentre gli danno il colpo di grazia. Muore così Paolo Ficalora, davanti alla moglie che stringerà quel volto a se, raccogliendo l’ultimo respiro del marito. Il “calvario” per lei è appena iniziato. Si perché accoreranno 10 anni per vedere riconosciuta quella morte come una morte per mano mafiosa. E’ infatti la vittima a finire sotto inchiesta, il morto ammazzatodiventa il colpevole, cominciano a circolare storie strane, ma infondate, sul suo lavoro, su come aveva costruito quel residence, sulle sue frequentazioni, quando finalmente comincia ad affacciarsi una possibile verità, ecco ancora fango. Tre anni dopo la morte violenta del marito, la signora D’Angelo vede una foto in tv e sui giornali, riconosce quella persona come un ospite di una delle case del residence, c’era stato molti anni prima, quando il marito era in vita, ma il nome che sente pronunziare non è quello con il quale questi si era presentato a loro, il vero nome è pesante, Salvatore “Totuccio” Contorno, il famoso collaboratore di giustizia, “Coriolano della foresta”, il pentito che quando stava nelle case del capitano a Guidaloca sarebbe andato in giro a compiere vendette contro i mafiosi che lo volevano morto. Il delitto di Paolo Ficalora per primo viene raccontato da uno dei due sicari che entrarono in azione, Giovanni Brusca, l’altro era il famoso lattoniere di Castellammare del Golfo Gioacchino Calabrò, il lattoniere esperto di stragi, condannato nell’ambito delle indagini sulla strage di Pizzolungo, coinvolto in quelle del 1993, protagonista del fallito attentato del 1993 all’Olimpico di Roma. Brusca racconta il delitto e svela che per la mafia il capitano Ficalora avrebbe avuto consapevolezza che il suo ospite era Contorno. Falso dice la vedova. Prima ancora di quella rivelazione di Brusca, la morte del capitano Ficalora era stata spacciata dalla “vox populi” per una morte avvenuta nell’ambito dei contrasti tra i clan rivali dell’alcamesi, addirittura c’è qualche investigatore, dei carabinieri, che si intestardisce che questa è la pista giusta da battere, la mafia prima ti ammazza e poi ti mascaria diffamandoti. Una pista seguita perché la pistola usata per uccidere Paolo Ficalora era comparsa in delitti della faida di Alcamo che si combatteva in quel 1992 tra Alcamo e Castellammare del Golfo. Vita D’Angelo per dieci ripeterà sempre la stessa cosa, rivendicherà quello che risulterà essere la giusta cosa, “voglio solo che mio marito sia riconosciuto vittima innocente della mafia. Non mi interessano i risarcimenti economici, ma pretendo che lo Stato certifichi la sua completa estraneità alla mafia”. Le ci sono voluti più di dieci anni, ma alla fine c’è riuscita.
Nel 1988 una delle case del residence del capitano era stata presa in affitto da un imprenditore agricolo di Villabate, Agostino D’Agati, racconta al capitano Ficalora, che da un anno è in pensione, che ha bisogno di una abitazione per la sua famiglia, in attesa che il suocero completi la loro, D’Agati racconta che vuole seguire quei lavori e per questa ragione preferisce venire ad abitare nei pressi trasferendosi così da Villabate. Affitto perfettamente regolare con tabnto di contratto e segnalazione al commissariato, per legge le locazioni vanno denunciate. I Ficalora invece non abitano lì, ci vanno solo la domenica, il capitano non lavora più, ma la moglie è ancora dirigente scolastica a Palermo dove risiedono, e così quando la domenica arrivano a Guidaloca di tanto in tanto incontrano altre persone che sembrano essere lì quali ospiti dei D’Agati che li presentano loro come “parenti”, Gaetano e Salvatore, il primo è appassionato di caccia, come il capitano Ficalora, motivo per cui i due spesso si ritrovano assieme a parlare. Tutto questo succede fino al maggio del 1989 quando i D’Agati vanno via, dicono che la loro casa è stata completata.
Paolo Ficalora ama quel residence, si dedica anima e corpo, in quella Castellammare del Golfo “governata” da mafia e massoneria, c’è però chi vorrebbe per se quel terreno, ma Paolo Ficalora difende la sua proprietà, nonostante avere subito nel tempo incendi, danneggiamenti, gli fu ucciso anche il cane, un pastore tedesco. Il pensiero che circolava nei Ficalora è che quello accadeva per via del fatto che il capitano non ne voleva sapere di aderire alle richiesta di vendita. Pensa ancora che il delitto del marito maturò in quel contesto anche quando un capitano dei carabinieri la andò a trovare dicendo che lei doveva decidere cosa fare, “mi chiese che dovevo scegliere o le cose o la vita”. Quel capitano fu cacciato via malamente dalla signora D’Angelo che lo denunciò anche senza che però la cosa ebbe un seguito. Ma contro di lei comincia a muoversi la macchina della diffamazione, più lei va avanti ricostruendo quello che è accaduto, a loro insaputa (e in questo caso non è tanto per dire, non è un “insaputa” di ministeriale memoria), la storia di Contorno, dei D’Agati, crescono le voci che la danno per “visionaria”, “pazza”, altre donne sarebbero impazzite, lei invece no va avanti, fino ad incontrare un pm, il magistrato Gabriele Paci, oggi è il Procuratore della Repubblica a Trapani dove è tornato dopo 30 anni. Paci decide di ascoltarla, trova i riscontri, scrive la vera storia del capitano Ficalora, il magistrato a Palermo ha indagato sul tessuto mafioso trapanese, poi a Caltanissetta è stato uno di quelli impegnato a Caltanissetta a riscrivere in modo corretto quello che accadde prima e dopo la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992. Paolo Ficalora fu ucciso dalla mafia per avere dato ospitalità nel 1988 al pentito Totuccio Contorno. Ma lui non sapeva che il suo inquilino era Contorno. Brusca è stato condannato a 12 anni per questo omicidio, Calabrò all’ergastolo. Dietro le quinte del delitto si muove anche un imprenditore-mafioso, Leonardo Cassarà, che morirà anche lui, fu lui ad avvertire Totò Riina che Contorno abitava in quel residence, una informazione che arrivò al capo dei capi quasi in diretta, in quel 1989, ma la conseguenza mortale maturerà contro Ficalora anni dopo, e il perché è legato al fatto che la mafia castellammarese non aveva dimenticato quella circostanza ma se ne era maggiormente ricordata quando Ficalora aveva chiuso le porte in faccia proprio a Cassarà che era andato a chiedere di vendere quel terreno e quel residence. Nella motivazione delle condanne il giudice scrive: “Al capitano Ficalora si è voluto infliggere un supplizio ben più grave di quello estremo dallo stesso subìto, tormento che, travalicando i limiti della esistenza umana, avrebbe coinvolto quanto di più nobile ed elevato un uomo può avere: la dignità e l’orgoglio della propria onestà morale”. “Mio marito – racconterà la vedova – era orgoglioso della sua indipendenza politica e sociale, ed è morto senza sapere perché”