Non avevamo inventato nulla

Mafia, operazione “Scialandro”: i nostri reportage su Custonaci e il risultato delle indagini antimafia di ieri

Custonaci si svela essere il centro di quegli affari tra mafia e politica che mentre noi da questo giornale un paio di anni addietro raccontavamo , c’era chi si arrampicava sugli specchi per dire che noi eravamo bugiardi e calunniosi. E’ vero, siamo dinanzi ad una ordinanza di misura cautelare, non siamo ancora al processo e quindi non c’è sentenza, per tutti vale la presunzione di innocenza, ma pensiamo che oggi qualcuno, anche tra certuni colleghi giornalisti, dovrebbe chiedere scusa. Ma no a questa redazione, ma alla gente i cui bisogni sono diventati per certuni affari. Per tornare alla nostra inchiesta ricordiamo quanto fu documentata, anche con tanto di foto, di politici e mafiosi seduti allo stesso tavolo e partecipi alle stesse feste. L’ex sindaco Morfino che forse pensò di intimidirci al solito, come altri, facendo balenare l’ipotesi di una querela, oggi ha il suo bel da fare, quello di doversi difendere da una misura nella quale è indicato come indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo immaginiamo impegnato a difendersi, e non vogliamo distrarlo. Sebbene il gip non ha ravvisato gli estremi per accogliere la misura detentiva chiesta dai pm antimafia, intanto dovrebbe dirci se questa ipotizzata giunta parallela a Custonaci ci sia davvero stata. Certo è che al Municipio per anni c’è stato un certo via vai di personaggi, uomini e donne, che con Cosa nostra erano anche più che parenti, erano assoldati. E le persone ritenute per bene vedevano e non parlavano, nemmeno quando il vice sindaco Carlo Guarano, che sarebbe diventato assessore in quota Cosa nostra e che da impiegato dell’ufficio di collocamento si sarebbe occupato di far trovare lavoro a qualche “amico”, andava dicendo nemmeno sottovoce che erano divenute insopportabili le manifestazioni a ricordo di Falcone e Borsellino e che la targa collocata nell’aula consiliare così dedicata al giudice Antonio Caponnetto se qualcuno doveva pagarla non poteva che essere, a suo dire, i familiari del giudice. E queste cose si dicevano mentre si pensava a fare affari, gestendo appalti, compreso anche quello della distribuzione idrica, sfruttando senza ritegno, il bisogno più noto che c’è in questa terra, la penuria d’acqua, oppure gestire i benefit economici legati a fronteggiare l’emergenza Covid. Misfatti che dovrebbero portare la società civile a indignarsi.

L’indagine “Scialandro” dimostra che Cosa nostra da queste parti continua a vivere, con i soliti pesanti cognomi. Spunta ancora il nome di Giuseppe Costa che da sequestratore del piccolo Giuseppe Di Matteo (il figlio del pentito Santino ucciso per vendetta) è diventato presto un vero capo una volta tornato libero, e con lui ci sono i nomi dei Bonanno, dei Buzzitta, dei Mazzara, Mario e Vito, quest’ultimo sicario di fiducia dei Messina Denaro e dei Virga, dei Minore. Uno di questi, Mariano, figlio di Caliddo Minore (restarono famosi i funerali celebrati nella Basilica della Madonna, nel cuore di quel borgo da sempre regno della “famiglia”, navate affollate e saracinesche dei negozi chiuse per lutto e articolo celebrativo sulle colonne del principale quotidiano, il Giornale di Sicilia), addirittura è stato ascoltato dire che una volta “posato” dai vertici mafiosi corleonesi, che intanto avevano ucciso lo zio, il potente Totò Minore, capo della mafia trapanese sino al 1982, è rimasto in attesa di poter tornare nella cosca, “uno nasce con una stidda….io seguo la linea perfetta che mi ha lasciato mio padre”. E in tal modo si è fatto riconoscere tra le figure più rappresentative della mafia locale, e lui sprezzante andava dicendo che chi lo aveva “posato” era solo della gentaglia. Buzzitta padre, Nino, appena condannato al processo “Scrigno”, si è scoperto aver trovato ottima spalla nel figlio, Andrea, per non parlare di Pietro Armando Bonanno, killer in libertà della mafia trapanese, forse il vero regista della condotta per rimettere in piedi Cosa nostra a Trapani dopo arresti e condanne. Si parlavano e si incontravano alla luce del sole, anche in un noto stabilimento balneare trapanese, uno tra i più “in” della città, serate trascorse a bere champagne. Una mafia che è tornata, anzi per meglio dire forse da lì non si è mai mossa, al più antico degli affari, quello del controllo del territorio attraverso il predominio su cospicue proprietà terriere, sui pascoli, imponendo le proprie gabelle, o anche mettendo mano ad aste giudiziarie, con il solito ventre molle del Tribunale, se è vero ciò che si legge e che qualche dipendente degli uffici giudiziari sarebbe stato solito passare notizie importanti per le aggiudicazioni. Un personaggio rimasto per adesso senza volto. Ma tra le pagine dell’ordinanza si possono intravedere altri affari, il controllo del mercato del calcestruzzo, di quello oleario, ma si intravede anche altro per i nomi in campo, il commercio per esempio dei materiali di cava finiti a riempire i nuovi porti in mezza Sicilia. Ancora una volta viene fuori la fotografia più reale della mafia trapanese, una mafia che sa sparare bene quando è ora di sparare ma sa votare bene quando è ora di votare.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.