I racconti di Nicola Quagliata
Incipit ed exesplicit
La notizia, corsa col vento su ali di piccioni viaggiatori, su zoccoli duri, in terreni impietriti, di cavalli dalla pelle lucentee dai polmoni a mantice, dal lungo collosottile con su la piccola testa camusa e le orecchie diritte verso il cielo, arrivò all’emiro nella stessa giornata dell’11 febbraio del 1229. Quel giorno Federico II di Sicilia e al-Malik al-Kamil nipote di Saladino e sultano ayyubite, avevano raggiunto un accordo di pace per almeno un decennio, un accordo non solo di non belligeranza, ma addirittura di collaborazione e scambi amichevoli, culturali e commerciali. Il mondo ora, grazie ai due illuminati da Allah ed al loro miracolo, poteva vivere e prosperare senza spargimenti di sangue e distruzione di città e territori.
Appresa la notizia, l’emiro ordinò che dalle buie prigioni nelle fondamenta del suo palazzo, ad est della collina di Mokattamal Cairo, dove Saladino pochi anni prima aveva costruito la sua cittadella dalle mura inespugnabili, venisse tratto, lavato e rivestito, il giovane crociato che i suoi guerrieri avevano portato in catene dopo averlo catturato, e salvato dagli artigli infuocati del deserto dove si era disperso, abbandonato dagli altri crociati in fuga coi bottini predati nei villaggi e coi bambini appesi alle lance come trofeo del loro valore. L’infedele veniva deumanizzato e non c’era più limite alla ferocia disumana dei cavalieri crociati.
All’arrivo del giovane prigioniero, ancora in catene, lo stesso emiro lo aveva interrogato apprendendo che era cresciuto nella corte di Federico a Palermo, che parlava diverse lingue e ne leggeva e scriveva altrettante,e leggeva i caratteri della scrittura visigota antica, l’onciale ed il semionciale, i caratteri greco ed il latino.
L’emiro si raccomandò che lo facessero ben lavare e che gli togliessero di dosso la puzza degli escrementi dove teneva i crociati prigionieri, egli infatti riteneva che dovessero stare immersi nei loro stessi escrementi per l’offesa che recavano adAllah ed al loro stesso Dio,per l’efferatezza dei crimini di cui si erano macchiati.
Al giovane palermitano, della corte di Federico, adesso, chiamandolo al suo cospetto, riservava un diverso trattamento, di collaborazione.