Saetta, un eroe civile quasi dimenticato
Mafia, 36 anni fa l’omicidio del giudice Saetta e del figlio Stefano. Pagò con la vita il fatto di essere un giudice con la schiena dritta
Di Ottavio Sferlazza*
A distanza di appena cinque giorni dal 34° anniversario dell’assassinio di Rosario Livatino sento oggi il dovere morale di ricordare il sacrifico di un altro giudice siciliano, Antonino Saetta, presidente della Corte di assise di appello di Palermo, anch’egli di Canicattì come Rosario, e come lui ucciso, insieme al figlio Stefano, mentre percorreva la stessa SS 640 a pochi chilometri da Caltanissetta per fare rientro a Palermo nella tarda serata del 25 settembre 1988. Lo voglio ricordare, a distanza di 36 anni, perchè Saetta, appartenente alla schiera dei primi magistrati giudicanti uccisi da “Cosa Nostra”, è un eroe civile poco noto e quasi dimenticato. Lo voglio ricordare soprattutto per i colleghi più giovani che nel 1988 erano nati solo da qualche anno. Ho conosciuto la statura morale del presidente Saetta solo attraverso lo studio delle carte processuali, avendo avuto l’onore di presiedere la corte di assise di Caltanissetta che ha condannato i mandanti Salvatore Riina e Francesco Madonia, ed un esecutore materiale, Pietro Ribisi. E’ giusto ricordare, per rendere onore al suo altissimo senso del dovere e dello Stato, che in esito alle indagini preliminari ed alla istruttoria dibattimentale, come risulta dalla motivazione della sentenza che ho redatto, fu accertato che con l’uccisione del dr. Antonino Saetta, “cosa nostra” volle perseguire una duplice finalità. Innanzitutto vendicarsi nei confronti di un giudice che non aveva voluto piegarsi in più occasioni alle intimidazioni ed alle richieste di “cosa nostra”.
Il presidente Saetta aveva presieduto la Corte di Assise di appello che dopo un tormentato iter processuale, fortemente condizionato da molteplici tentativi di “aggiustamento” dei precedenti giudizi, aveva condannato, in sede di rinvio dalla cassazione, gli esecutori materiali dell’omicidio del capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale nel maggio del 1980, Giuseppe Madonia, figlio di Francesco e figlioccio d Riina, Armando Bonanno e Puccio Vincenzo. Molteplici fonti probatorie, fra le quali anche collaboratori di giustizia, rivelarono che alcuni giudici popolari erano stati contattati tramite le famiglie mafiose dei rispettivi luoghi di residenza e che quegli stessi giudici popolari avevano successivamente fatto sapere a chi li aveva avvicinati che il presidente Saetta si era imposto in camera di consiglio affermando di non essere disposto ad emettere una sentenza di assoluzione in presenza di un grave quadro probatorio nei confronti degli imputati. Appare univocamente significativa la seguente cronologia: la sentenza fu emessa il 23 giugno 1988, il successivo 16 settembre fu depositata la motivazione e a distanza di appena 9 giorni fu eseguito l’agguato che costò la vita al presidente ed al figlio Stefano che gli sedeva accanto. Il secondo obiettivo, processualmente accertato, era quello di prevenire il pericolo che un giudice che aveva dato prova di essere integerrimo ed inavvicinabile presiedesse la Corte di Assise di appello nel processo a carico di Abbate Giovanni + 459, quello che ormai è storicamente noto come il primo maxi- processo a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La convinzione che si era diffusa in “cosa nostra” era fondata, perchè effettivamente il maxiprocesso era stato assegnato alla prima sezione della Corte di assise di appello di Palermo che era presieduta proprio dal presidente Saetta, il quale nei primi giorni di settembre del 1988 era stato ufficiosamente incaricato della trattazione di quel dibattimento.
La sua intransigenza morale era, peraltro, ben nota a “cosa nostra” fin dal 1985 allorchè aveva personalmente respinto ogni tentativo di avvicinamento per condizionare l’esito del primo processo per la strage di via Pipitone Federico in cui perse la vita il consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici, tentativo segnalato dallo stesso presidente Saetta all’allora comandante della compagnia dei carabinieri di Canicattì. Il processo si concluse con la condanna di Michele Greco, detto il papa, Greco Salvatore ed altri. E’ appena il caso di sottolineare l’importanza che rivestiva per “cosa nostra” evitare che il giudizio di appello del maxiprocesso fosse presieduto dal dr. Saetta: prevenire il pericolo che si consolidassero determinati principi giurisprudenziali che erano stati affermati per la prima volta nella sentenza di primo grado, con particolare riguardo al riconoscimento della unitarietà e della struttura verticistica di “cosa nostra”, e ciò anche in relazione alla responsabilità della “commissione” per i delitti cosiddetti “eccellenti” ed in genere per quelli corrispondenti ad un interesse strategico della organizzazione come quelli della c.d. guerra di mafia; principi che sarebbero stati definitivamente affermati dalla I sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 30 del 30/1/1992 Per molti aspetti l’assassinio del presidente Saetta e del figlio Stefano ha rappresentato, oltre che un vendetta, anche un delitto con chiara finalità intimidatoria di natura “esemplare” nei confronti di magistrati con funzioni giudicanti.
Al presidente Antonino Saetta ed al figlio Stefano va la nostra immensa gratitudine ed il commosso ricordo.
*Magistrato