Ho un amico d’infanzia: lo conosco da quand’ero piccolo, lui un poco più grande di me, abitavamo nello stesso palazzo. Abbiamo continuato a sentirci in tutti questi anni, incontrandoci con una certa regolarità da quando io e poi anche lui abbiamo lasciato il vecchio indirizzo. Anche più tardi, pur vivendo ad una cinquantina di chilometri, ci sentiamo periodicamente e ci incontriamo (ultimamente però mi devo spostare sempre io). È un tipo particolare, diventato nel corso degli anni scontroso, burbero, solitario. Sarà perché vive da solo, in una grande casa che sembra non abitare per intero o forse non abitare affatto, ossessionato dai ricordi dei tempi passati quando la casa era animata da mille risate, grida e suoni. Gli sono a mio modo affezionato, non si spiegherebbe altrimenti il bisogno che mi piglia ogni tanto di chiamarlo, di sentire come sta, pur sapendo che la telefonata si trasformerà subito in un rimprovero perché chiamo così di rado o perché non vado mai a trovarlo. Il punto è che lo immagino spesso isolato, con pochissime persone attorno, per cui si smuove in me un fatale senso di colpa e finisco per chiamarlo almeno una volta a settimana. A volte sono telefonate talmente sgradevoli, amare, che per giorni non me ne ricordo più, è come se rimuovessi dalla memoria la sua stessa esistenza, allora resisto di più senza sentirlo. Poi però torna il senso di colpa che lui bada bene di nutrire con grande determinazione, rinnovando sempre ai primi convenevoli telefonici la risposta “sono solo”, alla domanda “come stai?”; e probabilmente risponderebbe “sono solo” anche se la domanda fosse “che ore sono?”. Attenzione, è da dire che in realtà so che lui non è del tutto privo di compagnia, tanto è vero che ha una fidanzata, che devo chiamare così invece che ad esempio “compagna”, perché in effetti non è compagna, nel senso che non vive insieme a lui. È quindi più una specie di fidanzamento adolescenziale, pur essendo Dino (il mio amico, di cui non avevo ancora dichiarato il nome nel pezzo, ma di cui il lettore era già stato avvertito nel titolo), come già segnalato, più grande del sottoscritto e addirittura in pensione da un paio d’anni e lei non esattamente una giovinetta. Però nei discorsi con me, questa fidanzata rimane sullo sfondo, come una presenza precaria (o assenza precaria). E anche quando vado a trovarlo con mia moglie, raramente usciamo in quattro. Se poi mi trovo a passare per la sua città, a sbrigare delle faccende di lavoro o per altre urgenze o per accompagnare mia moglie nello shopping, e lo avverto, rammentando di quanto mi rimproveri di non andarlo mai a trovare, si lamenta perché rimaniamo per troppo poco tempo a casa sua; allora mi accusa di essere “andato a fargli una visita, proprio come se fossimo due estranei”. Oppure magari la sera prima lo avviso che sarò per lavoro in un’altra zona della sua città per tutta la mattina, se ha voglia di prendere qualcosa al bar insieme… e lo dico pur non avendo dimestichezza alcuna con i bar, visto che non prendo caffè, è solo proprio per fargli piacere. In quel caso mi risponde che non sa cosa farà l’indomani, che il luogo da me proposto è lontano da casa sua e c’è troppo traffico, che magari ci risentiamo nel corso della mattinata. Tante volte mi chiedo cosa lo chiamo a fare. Poi mi riprende questo senso di responsabilità nei suoi confronti e finisce che lo richiamo. Fino a qualche anno fa almeno avevamo l’abitudine di vedere insieme alcune partite, specie quelle più importanti di coppa campioni (so che non si chiama più così quel trofeo, ma passatemi il richiamo nostalgico). Era un modo simpatico di condividere un interesse comune, si prendeva una pizza fuori e si mangiava davanti la tv. Quando l’ho proposto, ultimamente, mi ha invece risposto in malo modo: “Ah, perché tu vieni a trovarmi per guardarti la partita? Non so se la guarderò”. Quando fa così, ci rimango davvero male e mi mancano le parole per rispondere. So però che la sera dopo, alla sorella andata a trovarlo, non ha rivolto uno sguardo, dedicandosi per intero alla partita trasmessa. La sorella, che glielo ha fatto notare, è stata accusata di distrarlo, nonché di essere presente nell’unico momento in cui lui finalmente aveva qualcosa da fare (perché evidentemente bisogna persino scegliere i momenti giusti in base alle programmazioni tv). Mi sono deciso a chiamarlo poco prima della mia partenza per il weekend a Pantelleria insieme ad altri amici. Lui ha accolto la notizia benevolmente e la telefonata sembrava procedere in serenità; quando ho sentito che Dino mi chiedeva del famoso passito dell’isola e se conoscevo un produttore artigianale, mi sono lanciato (sbagliando di brutto) nella proposta di prenderne una cassa da 6 bottiglie per lui, visto che sarei andato – e tornato – in aliscafo dal porto della sua città. Sarebbe bastato farsi trovare in banchina al rientro, previsto per le 18,30 della domenica pomeriggio, non proprio un orario scomodo, e gli avrei potuto consegnare il passito artigianale di un viticoltore di mia conoscenza. È stata una proposta assurda? L’ho offeso in qualche modo? Non si capisce. Di certo la telefonata ha improvvisamente virato verso l’irrazionalità. Dino ha cominciato a dire che lui non è un tipo da incontri rapidi al porto, che chissà se poi la nave sarebbe davvero arrivata a quell’ora (non sono riuscito a replicare ricordandogli dell’esistenza dei telefoni cellulari e che quindi l’avrei potuto avvertire se ci fossero stati ritardi), che non sono questi i modi di fare regali agli amici, che il passito è l’ultimo dei suoi pensieri. Mi sono rimproverato per l’ennesima volta di aver chiamato, poi educatamente ho salutato e messo giù. Ora mi trovo sull’aliscafo del ritorno, a circa un’ora dall’arrivo. Chiaramente non ho preso la cassa di passito per Dino, ma solo due bottiglie per me. È stato un weekend molto simpatico, durante il quale avendo capito che c’era in corso la vendemmia abbiamo deciso, con gli amici, di comprare alcune cassette di uva zibibbo. So quanto Dino ami quest’uva. Guardo le cassette, penso che sono ancora in tempo per avvertirlo di venire giù al porto e dargliene un po’. Ma non lo farò.