di Liborio Piccichè
“…mi pare che i particolari guai del nostro paese nascano tutti da una inveterata e continua doppiezza, da un vasto e inesauribile giuoco della doppia verità che partendo dall’alto soltanto si arresta là dove la verità non può permettersi il lusso di essere doppia ed è una, inequivocabile: quella della povertà e del dolore”. ( Leonardo Sciascia )
L’inaugurazione del busto alla memoria di Piersanti Mattarella avvenuta nell’Istituto Comprensivo Superiore di Castellammare che porta il suo nome, è sicuramente un evento importante e sarebbe ingiusto se passasse inosservato o fosse considerato un fatto concluso con la celebrazione mondana e ufficiale.
Insegnare in una scuola che porta il nome di Mattarella costituisce una eredità impegnativa e considerando la dimensione pubblica dell’istituzione scolastica, questa eredità comporta per noi tutti siciliani un atto di riflessione politica o perlomeno una valutazione del nostro sentire il rapporto con il potere costituito. Scoprire una lapide, innalzare un monumento o un busto ritratto significa fare i conti con la storia; l’evento specifico ci coinvolge in triplice modo: come cittadini italiani per il portato politico, come insegnanti per la dimensione storico culturale, e nel mio caso specifico come insegnante di storia dell’arte per gli aspetti tecnici ed estetici.
Dirò subito che in questo contesto, quest’ultimo aspetto che dovrebbe per ovvi motivi coinvolgermi direttamente, viene deliberatamente tralasciato. Quando ho appreso la notizia dell’evento, ( formalmente con una circolare), istintivamente ho pensato alla “lezione spettacolo” di Dario Fò sul Duomo di Modena; in quella occasione il premio Nobel ebbe l’urgenza di evidenziare, oltre i pregi artistici del monumento romanico, la continuità democratica tra la comunità e l’opera d’arte intesa come simbolo culturale degli sforzi collettivi nel fronteggiare le ingiustizie e l’arroganza del potere. Non sempre nella storia dell’arte, il rapporto arte-democrazia è stato così lineare; non occorre infatti citare l’arte di regime per capire che in talune circostanze storiche l’opera simbolo è calata dall’alto in un rapporto asimmetrico tra popolo e istituzioni dove il diritto di cittadinanza cede il passo alla sudditanza. La seconda questione riguarda l’approfondimento del significato dell’opera d’arte come monumento. Leon Battista Alberti ci viene in aiuto a spiegare l’intenso legame tra arte e storia che proprio nel monumento trova la sintesi più alta: il “monumento” è principalmente per l’Alberti, non il palazzo o una generica architettura, ma la “statua-ritratto” che lega, nella celebrazione dell’individuo, la sua rappresentazione plastica agli eventi storici; e cioè alla concatenazione dei fatti su cui la collettività esprime, in fine, un chiaro giudizio di valore da tramandare ai posteri.
La realizzazione di un monumento è quindi un atto storico; l’inaugurazione del busto commemorativo di P. Mattarella (così come il busto ritratto del padre Bernardo esposto in bella vista nell’androne dell’Istituto Tecnico di Alcamo) ci obbliga ad una ricognizione storica della politica italiana e siciliana almeno dal secondo dopoguerra se non si vuol correre il rischio di esprimere un giudizio impreciso. La riflessione rimanda infine alla questione di metodo e determina una critica al metodo iterato dalle istituzioni nelle occasioni di: inaugurazioni di busti, tabelle dedicatorie, la pubblicazione di opuscoli commemorativi, la programmazione di eventi inneggianti la legalità, ecc. ecc. che in genere coinvolgono le scolaresche. Dando per scontato che nelle scuole non si dovrebbe fare politica, emerge con più dissonanza il tentativo di volervi scrivere la storia con il rischio di dare agli allievi esempio di cattiva metodologia e di cinismo della politica quando i fatti storici sono utilizzati in modo strumentale. L’uso strumentale per esempio della storia della seconda guerra mondiale è evidente nell’attuale scontro politico del bipolarismo nella contesa della legittima memoria per i caduti delle opposte fazioni. Senza perciò entrare in merito alle problematiche dell’omicidio Mattarella qui si vogliono evidenziare i limiti dell’ approccio metodologico e di conseguenza la confusione della sintesi conclusiva. Infatti fare storia presuppone la distanza temporale dai fatti che nella contingenza si configurano come fatti di cronaca: questo garantisce serenità di giudizio e obiettività a riparo dalle faziosità. Basti soltanto pensare alla probabile riapertura del processo per la strage di Portella della Ginestra, alla luce delle ultime ricerche storiche sull’evento, per comprendere che sulle responsabilità dirette o morali della classe politica del dopoguerra espressa dalla Democrazia Cristiana, non è stata scritta ancora l’ultima parola. La storia inoltre è scritta dagli storici di mestiere che, al di là dei pur legittimi orientamenti ideologici, devono in primo luogo provare con la testimonianza dei documenti le loro conclusioni. Essendo carenti di questi basilari requisiti è chiaro che le conclusioni di quelle manifestazioni inneggianti la generica legalità in cui si commemorano alla pari vittime della mafia differenti per dinamiche e storie, risultano generiche e imprecise quando per esempio si associa: l’assassinio di Mattarella a quello di Moro, suggerendo l’ipotesi terrorista, o si assimila il suo profilo umano alla figura di Padre Puglisi, confondendo l’immagine di un politico galantuomo che si preoccupò di avere le “carte in regola” nel governo della Sicilia, con chi “alla luce del sole” sfidò i mafiosi nel sottrarre loro dalle radici la manovalanza ed il consenso omertoso con l’arma potente dell’istruzione.